Pubblicato in: gratitudine, Wanderlust

Dovevo solo svoltare a destra

Ricordo quando, pressappoco un anno fa, ho scritto il post “Ciuffo“, sottolineando come, a volte, cambiare strada per poter esplorare nuovi territori non sia sempre così nocivo come si pensa. Spesso si tende a fare affidamento alla conoscenza popolare, rifugiandoci in quelle parole rassicuranti di una saggezza che, di tanto in tanto, non ci appartiene più, oppure non si sposa bene con la vorticosa velocità di questi costanti cambiamenti.

Ebbene, a distanza di quasi un anno, mi è capitata un’esperienza simile al ciuffo. Lombardia, zona rossa, lockdown soft, come piace chiamarlo ai più. Il soft consiste nel fatto che è consentito fare jogging o passeggiate nei pressi della propria abitazione. Questo mi ha rincuorata seppur in minima parte, poiché una delle piccole abitudini che ho preso per curarmi è proprio quella di fare jogging. Il mio parco del cuore da quando mi sono trasferita a Milano dista circa un chilometro da casa mia, quindi ho pensato subito che non sarebbe stato il caso allontanarsi troppo (per dovere di cronaca, credo di essere una delle pochissime persone che si crea problemi simili… o dovrei dire che rispetta le disposizioni del governo?), quindi ho cercato di fare mente locale sulle zone nei paraggi. C’è un’ala, per così dire, che non ho mai preso in considerazione sebbene la conosca da un po’ ormai… il Naviglio! Abito letteralmente a cinque minuti dal Naviglio piccolo e non mi è mai passato per la mente di recarmici per fare una passeggiata, o appunto jogging.

Quindi ci provo, vedo come butta la situazione lì e, mal che vada, aspetto nuove disposizioni ovvero DPCM per poter tornare a correre; insomma, rispetto a tante cose che si sentono in giro non è la fine del mondo. Mi armo di cuffie, playlist e scarpette comode per avventurarmi in questa bella passeggiata. Sinceramente? Speravo solo di non imbattermi in qualche bestia volante (sono insetti, tutto nella norma) non meglio identificata, ma almeno a questo giro mi va bene. Un volta giunta a destinazione, non so cosa mi spinge ad attraversare il ponticello per ritrovarmi dall’altra parte… sulla rive gauche se vogliamo chiamarla così…

Insomma, mi si apre davanti un paesaggio che non avevo mai messo a fuoco per davvero: un parco enorme, frequentato per lo più dai residenti della zona, pieno di alberi e di sfumature autunnali che tanto mi piacciono: verde, giallo ocra, marrone, rosso scuro. Mi è sembrata una meraviglia che si spianava lì, dritto davanti ai miei occhi! E per tutto il tempo che ho esplorato il territorio, un solo pensiero mi rimbombava in testa: dovevo solo svoltare a destra!

Tre anni e mezzo, tre anni e mezzo dove i miei piedi hanno sempre battuto la solita strada, svoltando sempre a sinistra alla fine del mio vicoletto, ritrovando le solite strade e a volte addirittura qualche solito volto che avevo imparato a riconoscere nel mio vicinato. E tuttavia, non avevo mai e poi mai pensato di prendere l’unica strada che mi avrebbe consentito di stare lontana dal solito, dall’ordinario. Anche quest’anno, a novembre, in un anno non pervenuto, ho avuto modo di sperimentare che a volte, cambiare la strada vecchia per la nuova, non è affatto male!

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Settembre

Settembre è un mese di merda per ricominciare” cantano i Gazzelle. Eppure non sono mai stata d’accordo con tutti coloro i quali hanno sempre provato astio nei confronti di questo mese, odiato quasi quanto gennaio. Perché? Beh, la risposta è abbastanza ovvia: sono entrambi mesi nei quali ci ripromettiamo una marea di buoni propositi che andranno puntualmente a farsi benedire nel giro di poco tempo. La palestra, la dieta, vedere più mostre, uscire più spesso, essere più presenti. Alla fine, ci ritroviamo in men che non si dica di nuovo all’estate successiva, per poter constatare che no, nemmeno quest’anno siamo stati in grado di essere abbastanza ligi al dovere.

Io però ho sempre amato settembre. Ho sempre amato l’aria frizzante del mattino, la ricerca della coperta durante la notte, quell’incertezza di fronte all’armadio quando non sai cosa cazzo mettere, perché la mattina ci sono 10 gradi e durante la giornata ci si ritrova con uno sbalzo termico che deserto del Sahara, scansate proprio! Ma la cosa che ho sempre e profondamente aspettato di settembre è stato il ritrovarsi. Ricordo l’attesa intrepida di una Pupetta in età scolare, che non vedeva l’ora di tornare a scuola, di imbrattare il diario miracolato con tutte le esperienze di un anno, di compiti, di dediche o semplicemente piccole note che ora siamo soliti depositare nella memoria del cellulare. E, non vogliatemene, ma io amavo fare i compiti! Non vedevo l’ora di tornare a casa ed immergermi negli esercizi in lingua straniera… forse un po’ meno nella matematica, e certe cose davvero non cambiano mai! Che bello quando davanti all’androne della scuola ci ritrovavamo tutti, volti noti e abbronzati ancora, sorridenti e carichi di ansia ed eccitazione, a raccontarsi dell’estate appena trascorsa, degli amori transitori che solo i 35 gradi all’ombra sanno regalare: forti, che odi, ma che lasciano il segno.

Con il tempo sono cambiate le modalità, ma ho rivisto un po’ di quella gioia anche quando si rientrava in ufficio, aggiornandoci su quella ormai breve parentesi, nulla a confronto della pausa estiva propria delle scuole, eppure riusciamo ad infilarci tutto lì dentro, fosse anche una sola settimana, quella di ferragosto, dove al mare non trovi un posto nemmeno pagando fior fior di quattrini. E tu, tra un cliente già esaurito e l’altro, sei lì a ascoltare, a raccontarti e a sognare quello che verrà. Ho sempre amato settembre.

Quest’anno però, eh… quest’anno… eccome se si percepisce la differenza! Le quotidianità sono state completamente stravolte; è così strano in questi giorni incontrare persone che non vedi da un po’ e apprendere quanto siano cambiate le loro vite nel frattempo. Non sono poche le realtà completamente stravolte, figlie di un lockdown che ha portato a chiederci inevitabilmente: è questa la mia vita? Mi piace cosa sono diventato? Mi piaccio?

C’è chi ha potuto rispondere affermativamente ad entrambe le domande. Altri invece non se la sono sentita e hanno cercato di sfruttare tutte le risorse possibili per poter modificare il loro status. Si parla tanto di south working, ovvero di persone che sono ‘tornate a casa‘, magari perché non riescono più a sostenere un affitto oppure perché hanno scoperto che, fermatosi il tran tran quotidiano, l’unica cosa tra le loro mani era la solitudine, e quindi vaffanculo i vestiti griffati e la mondanità, parto alla ricerca di qualcosa di autentico.

Tra queste persone, ma secondo motivazioni e modalità differenti, rientrano proprio i miei colleghi, o forse dovrei dire ex… o forse ancora dovrei dire che non sono mai stati effettivamente colleghi, perché l’intimità reciproca è tale che nessun edificio fisico ha mai impedito il raccontarsi, il sentirsi e il volersi vedere, il perdersi negli abbracci carnali che hanno sempre saputo parlare molto più di qualsiasi parola vana. Ciò che cambia però, sono le chiacchiere di primo mattino davanti ad un caffè, è il condividere la schiscetta della pausa pranzo e un giretto per i negozi prima di tornare a casa. E ancora è il supporto reciproco quando all’improvviso si viene a conoscenza di qualcosa di spiacevole, oppure di bello, bello assai.

A differenza dell’ingenuità adolescenziale, sappiamo benissimo che in età adulta i rapporti, se non si interrompono, mutano continuamente, perché non si smette mai di crescere e di evolversi (oppure involversi), di perdersi e poi ritrovarsi, o perdersi e basta. Le promesse sono tante, ‘mi raccomando non perdiamoci, questo è solo un arrivederci, quando ci rivediamo? io sono qui‘, e poi ci si mettono mille intoppi, mille imprevisti. Ci avete mai pensato a chi si trova dall’altra parte ad ascoltare? Di solito è qualcuno che ci crede davvero a quelle parole, che vede la gente andare via, spettatore ignaro della sua stessa vita che continua a mutare e a portarsi via le persone alle quali hai dato un pezzetto di te. E loro se lo tengono questo pezzo, mentre lo spettatore continua a perdere sempre un po’ e deve, ancora una volta, rimboccarsi le maniche e ricominciare tutto daccapo. Inizia una nuova sfida, ma è questo ciò che fa crescere, no?

Non è colpa di settembre: è colpa di quest’anno bisesto e funesto, e delle continue incertezze della vita. Magari questo è ancora agosto, quando saluti tutti prima di ripartire. Perché prima o poi si ripartirà, magari pure meglio, e allora tornerà anche settembre. Tanto sembra che in questo 2020 possa accadere veramente di tutto, no?

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Blu

Quest’anno, o per meglio dire, al calare del 2019, un team di esperti ha decretato che il colore adatto a rappresentare l’inizio di un nuovo decennio sarà il pantone blu. Anzi, classic blue.

Non un blu con qualche strana sfumatura, di quelle che impiastricci in lavatrice con un altro colore fin troppo vivace. Classico, un blu classico. Un rassicurante, familiare blu. Ho amato questa scelta dal momento in cui è stata annunciata la notizia, che mi ha lasciata anche interdetta al solo pensiero che ci sia effettivamente un team che al mattino impronta le riunioni sui colori. Voglio dire, sfioriamo ogni giorno la minaccia di un conflitto mondiale, un’intera nazione va in fiamme, la gente muore di fame, di solitudine, di miseria, di gelosia. Eppure, loro ogni anno pubblicano il loro bel statement e rendono noto al resto del mondo la loro decisione. ‘Quest’anno abbiamo deciso così. Stop. Arrangiatevi.’

Ricordo che l’anno scorso era il viola a farla da protagonista, e a me non solo non piacciono gli anni dispari (non me ne vogliate, non so nemmeno io il perché, anche io faccio fatica a capirmi a volte), per di più ci aggiungiamo un bel viola…V.I.O.L.A. Proprio quel colore, lo stesso che se lo vedono gli attori a teatro scappano, dietro il quale si cela una lista infinita di luoghi comuni bene o male fondati: il viola porta sfiga. Punto. E se proprio dovessi pensare a come mi è andato il 2019, allora sì, il viola porta DECISAMENTE sfortuna.

Ma quest’anno c’è il blu, che è già un’altra storia. Anche se, a ben guardare, in inglese esiste un’espressione molto frequente, ovvero feeling blue. Letteralmente, sentirsi blu: un’idea associata ad un disagio, ad un malessere, una sorta di melanconia dietro la quale però non è possibile ricercare le cause scatenanti. Un po’ il male del secolo, oserei dire: avere tutto, avere tanto, anche lo stretto necessario, ma non sentirsi mai soddisfatti. Ma questo stato, più che ad un colore, sarebbe da imputare solo a noi stessi, a questa smaniosa voglia di avere di più, perché non è mai abbastanza. Perché siamo così stupidi da credere che quella tipa su instagram mangi davvero tutto quello che ha nel piatto senza poi riversarlo sui fianchi. Crediamo davvero a quel tal dei tali che è andato in vacanza nel posto che fa tendenza e che abbia i soldi necessari per essere all’altezza delle foto che pubblica, quando in realtà non sa nemmeno campare (l’arte del saper campare, un’arte davvero per pochi eletti) offrendo un caffè all’amico.

Quindi mi piace pensare al classic blue un po’ come un ritorno alle origini… magari dipendesse tutto da un colore! Potrà non piacere come scelta per i capi di abbigliamento, come tinta stramba per i capelli, come smalto. Ma il blu è il colore fermo del mare, del cielo in una giornata tremendamente limpida, di quelle che, anche a gennaio in città, il sole riesce ad accarezzarti il volto.

Il blu è un colore rassicurante, simbolo della stabilità, della fedeltà, della saggezza, dell’intelligenza, delle cose autentiche, come autentico è il mare quando vai a cercare le risposte. Come quando in inverno la tua amica ti scrive che sta venendo a prenderti e che ti porta al mare, sugli scogli. E lo contempli, e ci chiacchieri, lo consulti, aspettando segni, e sogni. E lui se ne sta lì, con quel colore cristallino e bello, bello assai. Come non amare il blu allora?

Buon anno blu a tutti!

Jessica

Pubblicato in: èsololavita, Wanderlust

L’alba che ci aspetta

“In media, quest’anno hai camminato di più rispetto all’anno scorso.”

Mi sono imbattuta in questa frase, buttata così, statisticamente corretta, del mio telefono. Un giorno smanettavo tra alcune app e mi sono ritrovata tra le mani quella relativa al numero di passi, ai tragitti percorsi. Insomma, bene o male tutti abbiamo un servizio del genere su questi mostri tecnologici: ci fanno sapere quanti chilometri percorriamo, se abbiamo raggiunto l’obiettivo giornaliero e chi più ne ha più ne metta.

Quello che il mio telefono non sa, è il motivo per il quale ho avuto così tanto bisogno di camminare quest’anno. Sono uscita a camminare per prendere aria in faccia più di quanto voglia ammettere a me stessa. Mi ricordo che a volte realizzavo di essere per strada a percorrere vie a me familiari quando ero già ben lontana da casa. Altre volte correvo al parco. Mi rendo conto di essere stata davvero poco ferma. Un po’ come un animale in gabbia, come qualcuno che non trova pace. Ecco, proprio come qualcuno incapace di trovarsi in pace con sé stessi. A volte dovevo scappare da quella che definivo casa, perché non la sentivo mia, e ogni angolo mi riportava alla memoria attimi condivisi con qualcuno che aveva deciso di non esserci più. Solo che io non ero d’accordo allora. E sentivo il bisogno di scappare. Quindi si, caro telefono, ho camminato tanto quest’anno; ho incominciato col bisogno impellente di fuggire da me stessa, fino ad arrivare alla gioia di battere nuove strade, scoprire nuovi luoghi e infine ritrovarsi, sempre camminando.

Altri passi infatti sono stati frutto di passeggiate in compagnia, di giri interminabili di lavoro dove i piedi chiedevano pietà a fine giornata, ma la soddisfazione era troppa per potersi soffermare a pensarci. I miei passi mi hanno fatto andare incontro ad amici e familiari ogni volta che ne avevo bisogno, e ogni volta che loro avevano bisogno di me.

I miei passi mi hanno permesso di vagabondare in città sconosciute, sia per lavoro che per piacere: ho mangiato la paella a Valencia, raccolto soddisfazioni a Monaco, bevuto una birra sulla riva della spiaggia di Capri, ho bevuto il caffè più buono a Napoli, ho percorso le strade ripide di Lisbona, ho bevuto uno spritz a Verona con vista Arena, ho guidato su per una montagna a Palma, ho avuto un picco di colesterolo con un tagliere di salumi e formaggi a Parma, sono andata al cinema da sola a Norimberga e mi sono persa nell’incanto del Natale di Colmar.

Per gran parte di quest’anno ho sperato intensamente che il 2019 sparisse alla velocità della luce, come un fulmine che non tutti riescono a vedere, ma il cui tuono vibra nei timpani più del necessario. Come quelle situazioni vissute nell’arco di un paio di secondi che lasciano un amaro in bocca più di quanto si possa mai immaginare. Il mio primo post di questo blog parlava proprio della voglia di scrollarsi di dosso questa nefasta annata, di voler passare direttamente al 1 gennaio 2020. Era giugno. Ora, a dicembre inoltrato, ho capito che non sarebbe servito a nulla catapultarsi nell’anno successivo senza aver vissuto tutte le esperienze che il 2019 mi ha lasciato. Soprattutto quelle più spiacevoli. Non è un numero a fare la differenza, ma la somma del vissuto che continuiamo ogni giorno a portarci dietro, e dentro. Oggi saluto il 2019 come una vecchia amica saggia a cui essere profondamente grata, e mi rendo conto di poter parlare in tutta serenità proprio grazie a tutto ciò che è stato: credo che una bella differenza l’abbiano fatta anche le persone di cui mi sono circondata, ma devo riconoscere che sono stata io stessa a richiedere per me degli atti di coraggio che mai avrei pensato di dover affrontare. La cosa più bella ancora è stata poi superarli.

Ho portato con me due pensieri in particolare, entrambi raccolti ad aprile. In un momento in cui proprio no, non capivo per nulla a cosa mi sarebbero mai potute servire delle parole buttate lì su sfondo bianco. La prima viene direttamente da un messaggio inviatomi da mio padre. Mi trovavo ad una cena di lavoro con i miei responsabili, dove non sentivo altro che un chiacchiericcio indistinto, mentre la mia mente era ferma a casa, terrorizzata da quello che avrei (o non avrei) trovato una volta rientrata a Milano. Il messaggio è il seguente:

“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.” Kahlil Gibran

Nel secondo pensiero invece ci sono inciampata, letteralmente:

“Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”.

E’ una lastra di marmo che si trova a Malpensa. Ho poi scoperto che si tratta di un’opera di Alberto Garutti e che si trova in diversi luoghi, come appunto l’aeroporto, luogo di costante approdo per chi lascia o rientra a casa. Io l’ho vista prima di un momento particolare che difficilmente dimenticherò, eppure mi è servito anche quello per crescere ed imparare ad andare avanti con le mie sole forze.

Ho iniziato l’anno con una febbre da cavallo. Proprio io. Che in una stanza circondata da agenti virali ne esco completamente immune. Avrei dovuto capire tutto. Che quella tosse non mi faceva dormire la notte. Avrei dovuto capirlo dal 1 gennaio 2019, quando non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal divano. Avrei dovuto capire tutto. Ma poi è passato tutto. Ci ho messo un po’. Ma poi è andato tutto via. Il medico mi ha prescritto la cura, non è passato tutto in fretta, ma ad un certo punto il virus è andato via.

Quelle due frasi mi hanno permesso di capire, poi, fin dove sono stata in grado di spingermi. Perché tutti quei passi registrati sul cellulare sono quelli che mi hanno portato ad essere quella che sono oggi. E nonostante sia sempre severa con me stessa, devo dire che non mi dispiaccio affatto adesso, proprio ora. Sono in grado di vedere l’alba che mi aveva promesso il mio papà.

Per il 2020 non mi aspetto nulla e non mi sento di imputare colpe all’anno appena passato. So solo che la voglia di camminare difficilmente placherà la mia sete di scoprire il mondo, e perché no, anche me stessa.

Jessica

PS: se dovessi decidere con quale canzone introdurmi al nuovo decennio, sarebbe ‘Freedom ‘90’ di George Michael per il buonumore del ritmo e perché… ‘sometimes the clothes do not make the man’!