Pubblicato in: èsololavita, Terra mia

La notte dei desideri

Avevo il naso all’insù, nella settimana in cui dicono che le stelle cadranno, che bisogna esprimere un desiderio per ogni scia che si riesce a vedere.

Mi piace guardare le stelle, a Milano non è sempre possibile. Mi piace riconoscere il grande e il piccolo carro, e in inverno la cintura di Orione, la mia preferita in assoluto. Proprio mentre avevo individuato il grande carro, mi è sembrato di vedere una piccolissima scia luminosa. Impossibile dire se fosse una stella cadente o meno, c’erano troppe luci a disturbare. Ma, nel momento in cui ho considerato che potesse essere una stella, mi sono chiesta: che desiderio dovrei esprimere? Cosa vuoi, Jessica? Cosa dovresti desiderare tanto da aspettare la settimana delle stelle cadenti? E mi sono ritrovata a pensare che proprio non saprei. Non saprei cosa desiderare, vedere le stelle cadenti non è da tutti, non posso sprecare un evento così prezioso per qualcosa di superficiale. Un po’ come quando il Genio della lampada ti dice che puoi esprimere tre desideri soltanto, e devi prestare massima attenzione all’utilizzo delle parole e del desiderio. La magia comporta sempre un prezzo da pagare.

Al mio compleanno, prima di spegnere le candeline, ho desiderato che nulla cambiasse mai come la felicità che provavo in quel momento, e di avere per sempre l’amore di quelle persone nella mia vita. Desiderio sprecato. Anche se l’amore di cinque persone su sei, non è affatto una cattiva media. Va bene così Jessica, il bicchiere è ancora mezzo pieno.

E quindi sono ritornata alla sera di agosto, nella mia città, seduta sulla panchina, e ho deciso che questa volta no, non voglio assumermi questa responsabilità. Poteva essere anche un insetto che mi ha tratta in inganno. Sì, sarà stato sicuramente un insetto. Ho deciso così. Basta esprimere desideri. Vado a prendermi quello che voglio, o almeno ci provo. E se nel frattempo perdo pezzi per strada, probabilmente non facevano per me.

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Chiusi per ferie

Avvisiamo la gentile clientela che saremo chiusi per ferie e per fare l’amore.

Così recitava il cartello di uno dei miei bar preferiti di Milano l’anno scorso. Originale. Bello. E vero. Molti invece non vedono l’ora di far sapere a tutti dove saranno, sotto quale sole si lasciano baciare e, anche se tutto dovesse andare storto, l’importante sarebbe sempre farsi vedere col sorriso.

Ho come l’impressione che ogni maledetto agosto debba essere un motivo in più di ostentazione, come se non ce ne fossero abbastanza. Sì, perché ogni anno si ricerca la vacanza perfetta, la casa a Ibiza, Formentera o Mykonos perché va tanto di moda. Il giro in barca, le serate nelle discoteche più in voga, per poi ritornare alla solita routine e dimenticare tutto in un attimo. L’abbronzatura si lava via, e restano solo delle foto da memento che ogni tanto sfogliate nella galleria del vostro cellulare.

Perché si va in ferie? Bella domanda del cazzo, penserete voi. Sarà il caldo, la pressione di giornate interminabili e i continui affanni di richieste dell’ultimo minuto, come se dovessero tutti prepararsi ad un imminente disastro chimico. Ma tutti, chi più chi meno, chi prima e chi dopo, sentono quel desiderio impellente di stracciarsi di dosso gli abiti da ufficio, le divise da lavoro (divise in senso lato, riferito a persone che le indossano sul serio per svolgere le proprie mansioni. Ogni riferimento ad un ministro dell’interno a caso NON è puramente casuale) per cercare un po’ di spensieratezza, un po’ di leggerezza che la solita quotidianità non consente.

Sebbene manichino davvero pochi giorni alla mia pausa estiva, non so bene in che modo sarà gestita. E credetemi, non me ne frega nulla. Sono sempre stata lì, a partire da gennaio di ogni sacrosanto anno, a sognare le vacanze, a selezionare posti fantastici, non troppo affollati e alla portata di portafogli. A volte anche con un po’ di accanimento, lo ammetto. Così, quando poi scattava il periodo della classica domanda ‘dove vai in vacanza?’ io, da brava secchiona, ero già prontissima.

Quest’anno, vuoi una serie di circostanze, vuoi una mia predisposizione diversa, alla solita domanda rispondo con ‘boh!’. E mi piace. E mi fa stare bene. Per una volta, e spero per sempre, ho smesso di programmare i secondi della mia vita, ma mi sto calando molto nella napoletana che c’è in me: me la prendo accussì comm’ vene…

Aver fatto la maestrina preparatissima non mi ha mai portato da nessuna parte, aumentano a dismisura le aspettative, quindi correndo il rischio ancor di più di essere delusi per qualsiasi cosa vada male, o semplicemente un po’ fuori dai programmi. Quest’anno ho deciso di rompere gli schemi, di non prenderli nemmeno in considerazione. Può andare bene, così come può andare male. Ma questo succede anche nel momento in cui si pianifica, solo che ho deciso di scrollarmi di dosso tutte le rotture che vengono prima. Quest’anno vado in vacanza e non mi aspetto nulla. E sono felice. Saremo io e il mare. Ed è la mia storia d’amore più bella.

Chiudete per ferie. Spegnete il cervello. E fate l’amore.

Jessica

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There’s no place like home

Voi avete una casa? Dopo la consueta giornata di lavoro, dopo esservi fermati a fare due chiacchiere con amici e colleghi, tornate a casa?

Non fraintendetemi, per fortuna, e sottolineo per fortuna, tutte le persone che conosco hanno un tetto sulla testa, più o meno grande, con un letto alla francese o almeno un divano multiuso, un frigorifero e un congelatore discretamente pieni. Una doccia, i più fortunati una vasca. Insomma non ci si può lamentare.

Dorothy batteva i tacchi delle sue scarpette rosse e diceva ‘There’s no place like home’ e magicamente si ritrovava a casa. Se avessi questo dono, cambierei casa ogni volta. Rotolerei verso sud, abbraccerei più spesso quei volti che mi mancano tanto e farei dei luoghi non ancora visitati la mia casa per brevi periodi. Andrei a vedere il mare. Quella è la mia casa più bella.

Quello a cui mi riferisco io però, è il concetto di casa in senso lato. E’ quella sensazione di ritrovarsi nel posto giusto al momento giusto, quel luogo dove gettare tutto alle spalle e tirare un sospiro di sollievo. E’ lanciare le scarpe e infilare maglie comode perché arriva il momento di essere semplicemente sé stessi, senza filtri e senza maschere. E’ dove ballate e cantate, dove mangiate schifezze e imprecate contro la tv quando succede qualcosa di brutto. Casa può essere anche una persona, ma non è cosa da tutti. Sì, perché il concetto di casa può abbracciare diversi ambiti, può toccare diversi aspetti del nostro carattere, ma anche della nostra formazione in quanto esseri umani.

Mi sono sempre reputata fortunata per quanto riguarda la mia idea di casa. Ero giù a Napoli a casa dei miei, mi sono trasferita a Milano e non ero sola, avevo una casa in quanto tetto sulla testa e in quanto persona che mi faceva sentire a casa, rendendo meno traumatico il distacco dai miei affetti.

E poi, c’è stato il periodo in cui avevo sì un contratto di affitto, ma quella non era più casa mia. Era una dimora con un fantasma che non trovava pace per andare oltre, che la mattina non vedeva l’ora di scappare via e la sera faceva di tutto per ritardare il rientro. Casa può essere una benedizione, ma anche una condanna.

Pian piano, ho trovato la mia nuova casa, il mio nuovo posto nel mondo. Materialmente non è cambiato un granché. Ma è cambiato tutto proprio qui, nella mia testa. E’ cambiato il modo di affrontare la casa, di individuare le persone che ti fanno sentire a casa, e per qualcuno, spero di essere casa tanto quanto loro lo sono per me. Ora mi prendo in giro da sola, mi ripeto la scena di Selena, Catwoman, quando rientra a casa da sola e dice ‘Tesoro sono a casa! Ah, dimenticavo, non sono sposata…’

Catwoman Honey Im Home GIF - Catwoman HoneyImHome Batman GIFs

No, non sto dicendo che finirò gattara perché i gatti proprio non mi fanno impazzire, ma è giusto sapersi prendere non troppo sul serio, c’è già troppa pesantezza in giro.

Ora quella casa è di nuovo mia, la sento mia e mia soltanto. Mi piace far sentire a proprio agio chi si ferma da me ed estendere a loro la mia tranquillità ritrovata.

Sono padrona della mia casa. E sono padrona di me. Sono a casa.

Jessica

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Morto o’ rre, viva o’ rre!

Avevo preparato un altro post per questa settimana. Ma il suo epilogo non è stato come gli altri. Nonostante questa prima metà di luglio ci abbia regalato delle temperature ragionevoli prima del grande caldo, è il mio cuore a ribollire di dolore. Mercoledì 17 e giovedì 18 luglio sono venute a mancare due figure a mio parere importantissime della scena letteraria italiana: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo.

Martedì, nemmeno a farlo apposta, ho deciso di fare un giro in libreria per prendere spunto su prossime letture da fare. Mi era rimbalzata agli occhi proprio una sezione dedicata a Camilleri, pensando alle sue condizioni di salute. E poi, mercoledì mattina, apprendo la notizia della sua scomparsa. Ho letto tante cose sul suo conto, ma mai un suo libro. Rimedierò. Ho letto anche tutti gli insulti e i commenti inutili di persone talmente limitate che non si fermano nemmeno davanti alla morte, anzi celebrando la stessa come ‘un pidiota in meno’. Non so se ci sarà mai pace per loro.

E poi, la vera stangata, quella che più mi ha colpito per questioni di campanilismo puro. Luciano De Crescenzo, il signor filosofo-ingegnere. Qualsiasi cosa abbia letto o visto di suo pugno, ha sempre accompagnato la risata alla riflessione. Lui ha sempre incarnato il prototipo del perfetto napoletano ai miei occhi, una persona profondamente legata alla propria terra, avido di conoscerne tutti i segreti, ma allo stesso amareggiato per quella fetta di popolazione incapace di apprezzarla.

Ho notato che, da quando vivo a Milano, ho sviluppato una forma di nostalgia che mi ha portato ad amare sempre di più la mia città, talvolta anche a ricercare segni di Napoli in qualche angolo di Milano e credetemi, non ho fatto fatica. Ogni volta che sento una canzone napoletana, qualcuno al telefono con la mamma che parla in dialetto, mi scappa sempre un sorriso. Ancor di più se sono in compagnia di un mio conterraneo, e ce capimm a sische.

Niente frasi fatte. Niente citazioni. Solo tanto dolore nei confronti della letteratura italiana, nei confronti di un analfabetismo di sentimenti incalzante e una sintesi aspra del cuore, ma non posso esimermi dal non riportare una delle frasi, a mio parere, più belle del pensiero di De Crescenzo: “A volte penso addirittura che Napoli possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana.” (Così parlò Bellavista)

Mi immagino una conversazione, che per il momento non avremo il piacere di conoscere ma che non sarebbe tanto inverosimile:

Camilleri: Lucià, c’è troppa ignoranza e cattiveria in giro. Stanco sono. Sai che ti dico? Quasi quasi me ne vado…

De Crescenzo: Andrè, ma lo sai che tieni proprio raggion? Sai che c’è di nuovo? Mo’ veng pur io

Esimio prufessore, vi prometto di comprare tutti i libri che ho segnato nella lista desideri Amazon. Che vi devo di‘, mi fate sentire a casa quando vi leggo.

‘Professó permettete? Un pensiero poetico’: Grazie assaje.

Jessica

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Attimi di dimenticanza…

Avete presente quella frase: ‘quando siete felici, fateci caso‘? Ecco, ci fate caso quando lo siete per davvero? Ve ne rendete conto in quel preciso momento? O venite colti dalla nostalgia quando ormai si tratta solo di un ricordo lontano? Personalmente, la felicità mi spaventa e cerco sempre di tenerla per me, come quelle cose preziose da custodire gelosamente. Sì, spesso e volentieri ci faccio caso in quel preciso istante, ma la vita dà e toglie troppe volte per poterla sbandierare ai quattro venti. Mi sono anche ritrovata a dire spesso che la felicità altrui disturba, e credo sia vero. Non voglio giocarmi la carta della superstiziosa, ma del resto, sono napoletana, che volete farci.

Spesso mi rendo conto di quanto la ‘napoletanità‘ abbia inficiato sul mio modo di essere, ma soprattutto di agire e di cercare di sdrammatizzare situazioni dove proprio no, non ci sarebbe nulla da ridere. Anche io, come molti miei conterranei, porto dentro quella patina di malinconia per situazioni anche banali. Basta una nota familiare, un tramonto vista mare ed ecco che si riversano i soliti ‘pensieri assaje‘. Che volete farci, sarà l’età che avanza. Anzi no. Chiamiamola saggezza e consapevolezza.

Da buona partenopea, sono cresciuta a pane e Totò, Troisi, De Filippo. Sono in grado di associare ogni situazione o stato d’animo ad una canzone (preferibilmente se di Pino Daniele) o ad uno dei mille modi di dire, che con due semplici parole racchiudono il senso ampio di pensieri fin troppo articolati. Questi personaggi scorrono nelle nostre vene, un po’ come se fossero di famiglia, perché proprio come le famiglie, imprimono un segno indelebile nel tuo modo di essere.

Tornando alla nostra felicità, è a Totò che penso ultimamente, in particolare ad un’intervista che ha rilasciato giusto qualche tempo fa…

Siamo nel 1963, di lì a quattro anni, di Totò sarebbe rimasta la sua eredità, portandosi via la sua classe nell’esprimere concetti semplici, talmente semplici da risultare complessi. Si trova con Oriana Fallaci, sta per rilasciare un’intervista per L’Europeo, e dichiara quanto segue:

Signorina mia, ciascuno ha da portare una croce e la felicità, creda a me, non esiste. L’ho scritto anche in una poesia: «Felicità: vurria sapé che d’è / chesta parola. Vurria sapé che vvo’ significà». Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.”

Tempo fa, questa frase mi disturbava e non poco. Non la capivo, non la accettavo. Com’è possibile che proprio lui, proprio il principe della risata, possa dire una cosa tanto triste? Eppure, col tempo l’ho capito. La felicità si trova in una di quelle scatole dove all’esterno trovate scritto ‘fragile, maneggiare con cura’. In quegli istanti, spostiamo il velo della malinconia per far spazio a colori più vivi, ne preserviamo il ricordo per poi riporlo nel nostro cassetto segreto. Però sì, Totò ha ragione. La felicità va dosata, semplicemente per essere in grado di riconoscerla, viverla, apprezzarla come merita.

Maneggiatela con cura, la felicità. Non importa a nessuno se siate felici o meno, importa come vi sentite voi, che tesoro ne fate e come avete intenzione di gestirla. Quando siete felici, fateci caso.

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Dal diario di Pupetta del…

Non molto tempo fa, c’era una Pupetta incapace di dormire la notte, indecisa ogni volta se assumere la melatonina per conciliare il sonno, o quanto meno per aspettare il dolce abbraccio di Morfeo. Ma niente. Proprio non ce la faceva. Per quanto si sforzasse di scacciare i brutti pensieri come si fa come una mosca, è al buio che si rifanno vivi tutti i tormenti.

Non credo siano mai esistiti i mostri nell’armadio o sotto al letto. Credo piuttosto che un pensiero tanto potente, bello o brutto che sia, si possa materializzare e assumere forme concrete, perchè siamo noi a conferire loro forma. E’ stato in uno di questi momenti che ho ripreso a scrivere. Del resto, le canzoni migliori, la prosa, la poesia, non sono frutto di uno struggimento d’amore, di un momento di infelicità?

17 aprile

Ho preso a contare.

Conto i passi che faccio, i respiri lunghi di cui ho bisogno prima di addormentarmi. Quante sigarette fumo prima di mettermi a letto. Conto i giorni che sono passati, quanti sorsi di acqua faccio… conto il tempo che rubo a me per pensarti, perchè io non ho dimenticato.

Non ho dimenticato tutte le volte che il fiato me lo hai tolto tu, il numero di sorrisi che mi hai regalato, il numero di voli presi mano nella mano, o le foto che mi facevi quando non te lo chiedevo (poche, lo ammetto, ma erano speciali anche quelle).

Ricordo che una delle ultime foto che mi hai fatto, eravamo in viaggio verso casa, le mani intrecciate, per festeggiare la tua, la nostra adorata nonnina. Non troppo tempo fa.

Adesso conto quante colazioni a letto abbiamo perso, quante birre bevute insieme non ci sono più, quante volte non dormo accanto a te e quanti baci stiamo perdendo. Conto quanti sabati sono passati da quando non mi sono affacciata più per mandarti un bacio prima che andassi a lavoro e quanti film abbiamo perso abbracciati sul divano. Conto tutte le notizie che non posso più condividere con te, e che non vuoi più condividere con me.

Conto tutto questo, fino al giorno in cui non lo farò più, fino al giorno in cui perderò il conto.

Tu sei già andato via, io vivo ancora in questa bolla. Ti sei dimenticato di me.

Questo inciso riportato risale a due mesi fa, quando dicevo di vivere in una bolla. Quando vedevo la vita passarmi accanto senza nemmeno accorgermene. Indirizzavo i miei pensieri e le mie parole ad una persona di cui ricordo la schiena che andava via quando ha chiuso la porta di casa, senza una possibilità di ritorno.

In quel momento, in momenti del genere, le notti passano indistinte, abbracciati ad un cuscino senza più un proprietario, accoccolati sotto le lenzuola con i piedi freddi, perchè non ci sono più i suoi bollenti a darti calore. E quindi si prende a contare. Prima le pecore, che quella staccionata proprio non la vogliono saltare; poi quante ore mancano prima di andare a lavoro e vedere gente; fai i conti, con te stessa, col passato e soprattutto con quello che verrà poi. Ad un certo punto, però, la conta si interrompe. Non saprei dire di preciso quando sia successo, ma una serie di fattori esterni e non hanno sicuramente contribuito.

Il cuscino è servito alle mie amiche che si sono fermate a passare una serata con me. Ho messo i calzini doppi quando sentivo freddo, le pecore sono state sostituite da una lettura prima di dormire, o da una serie tv interrotta a metà dal sonno. La sveglia suona, e in alcuni casi corro il rischio di riaddormentarmi. Tutto questo per dire che ci si abitua, a tutto. Veramente. Purtroppo. O per fortuna?

Oggi ho smesso di contare.

Jessica

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Aria di casa

Caro diario…

Lo ammetto, non torno a casa tanto spesso quanto vorrei in realtà. Ogni volta ci sono mille impedimenti, mille impegni, orari scomodi di treni o aerei e i mille calcoli per cercare di capire come poi raggiungere la provincia. Detto così, parlando di una provincia del sud, si potrebbe pensare subito al paesello, quello con mille anime sperdute che si conoscono gli uni con gli altri. Ma non è questo il caso.

Potrei stare qui ad elencarvi le meraviglie di quel territorio, abbracciato dal mare e dalle montagne. Potrei parlarvi delle 28 fonti di sorgenti termali e dei tempi gloriosi in cui persone da ogni dove venivano a risanarsi. Potrei parlarvi dell’odore del pane appena sfornato e del fruttivendolo di fiducia, proprio quello che coltiva la frutta e la verdura nel suo orto. Dei taralli, dei laboratori di pasticceria, dei fratelli Abagnale, dell’Amerigo Vespucci, dei cantieri navali, di come Plinio il Vecchio sia morto sulla spiaggia di Castellammare per vedere da vicino la famosa eruzione del 79 d.C.

No, non voglio fare l’elenco, ma consapevolmente è proprio quello che sto facendo, sforzandomi di non continuare per non divagare troppo. La verità è che tornare a casa, non importa quanto tempo sia passato prima, scatena la memoria, fa riaffiorare sapori e profumi che non avevi dimenticato, e ti induce a chiederti come abbia potuto farne a meno per tutto questo tempo. Tornare a casa è un’emozione ogni volta destinata a rinnovarsi in forme e modi differenti: ritrovi persone sinceramente felici di vederti, e sembra di non averle mai lasciate per davvero. Certo, ai loro occhi resti ‘a milanes’, ma va bene così. Quando poi si rientra a Milano, torni ad essere la napoletana, e ti rendi conto di essere ormai diventata un ibrido senza più collocazione geografica.

Non è facile racchiudere in poche battute le sensazioni che vivono coloro lontani da casa nel momento in cui vi fanno ritorno, quando da lontano iniziano a delinearsi quelle famose due gobbe del Vesuvio, realizzando di esserci quasi. La gioia di chi ti aspetta, a casa o in stazione, per farti mangiare tutto ciò che vuoi e toglierti quegli ‘sfizi‘ che da tempo non assaggiavi. Sì, perchè la priorità assoluta è sempre il cibo, ‘o magnà’, e che magnà…

Un capitolo a parte merita il caffè, l’incontro al bar a qualsiasi ora del giorno o della notte. Il caffè non è solo quella bevanda miracolosa che ti tiene sveglio le giornate in cui proprio no, non ce la fai nemmeno un po’. Il caffè è un pretesto per un incontro. Quando dai appuntamento a qualcuno, non ti limiti a dire semplicemente ‘ci vediamo’, ma ‘ci vediamo per un caffè‘. Ogni volta si assiste a questa danza in cui ognuno si precipita davanti alla cassa per pagare e offrire, perchè il caffè non si paga singolarmente. E’ un modo per dire ‘grazie per avermi fatto compagnia, per aver preso un caffè con me e per aver scambiato due chiacchiere‘. Proprio in uno dei miei momenti da bar, quando mi trovavo giù, ho assistito a questa lotta tra due amici che si contendevano il pagamento alla cassa, ognuno già con il portafogli sfoderato. ‘Mi offendo!’, eh già, ci si offende se non accetti il caffè pagato, ci si offende se l’acqua si beve dopo, perchè serve a pulire la bocca da qualsiasi altro sapore precedente, e se non ti scotti le mani con la tazzina non vale, perchè il caffè si prende con le tre C: comm cazz coce!

La mia parentesi stabiese si è conclusa proprio in un bar. Finisco di mangiare la mia brioche buonissima, sorseggio il caffè guardando il mare e le macchine che mi disturbano la visuale. Dalla radio parte ‘Viva la vida’ e mi rendo conto che proprio qui, proprio ora, sì, viva la vida! Viva la vida che ti fa sentire viva, e questo solo grazie a te, alla voglia di fare e alla smaniosa voglia di vivere, di mangiarsela a morsi, la vita. Torno all’altra mia casa piena di nuove consapevolezze, portando nel cuore delle emozioni vissute in una vacanza fin troppo breve, ma fin troppo necessaria. Nonostante sia passato già qualche giorno e il caos della metropoli si sia di nuovo impossessato di me, ho ancora negli occhi le sfumature dell’azzurro del mare di Capri, la sensazione dell’acqua fredda che mi bagnava i piedi, e la consapevolezza che non sarà mai un addio.

Il sud, Napoli, Castellammare, possono avere tante cose ‘storte‘, tante cose da aggiustare. Eppure, deve esserci un motivo se tutti continuano a tornare a casa, sebbene per pochissimo tempo. Deve pur esserci un motivo se, andando via, scoppia nel petto l’appucundria che canta Pino Daniele (a proposito, Pino canta in ogni angolo delle città). C’è una mentalità, un modo di fare, unico nel suo genere, dove anche lo straniero riesce a sentirsi a casa e dimenticare ogni imprevisto incontrato durante il cammino. Nonostante si mangi solo veleno, non manca mai quel sorriso e quella convivialità tipiche del sud. Caffè?

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

2019

Di solito, prima di poter trarre delle ragionevoli conclusioni in merito ad un anno, si aspetta il suo dolceamaro epilogo. Tra regali, riunioni familiari, abbuffate infinite e luci natalizie, si ripercorrono i 365 giorni passati, caricando di nuove aspettative l’anno venturo, a riprometterci di cambiare, di migliorarsi, di dimagrire e di scoprire nuovi angoli del mondo. A dicembre, in particolare il 31, sui social imperversano post di persone che, con una foto ad hoc, sentono il bisogno di trarre le conclusioni in merito all’anno che si gettano alle spalle. E lo ammetto, anche io lo faccio, o meglio, di solito lascio che le foto parlino per me, senza necessariamente frasi ad effetto.

Il mio, di anno, potrebbe anche concludersi qui, agli inizi di giugno, e vorrei tanto che potesse essere così. Dal suo inizio, quest’anno non ha fatto altro che portare sciagure, e proprio nel momento in cui meno me lo aspetto, quando penso che proprio peggio di così non possa andare, ecco che la vita continua a mettermi alla prova. Ci sono tanti, troppi momenti in cui continuo a chiedermi ‘perchè proprio io? Perchè tutto questo sta succedendo proprio a me? Quando finisce tutto? Quando metteranno (chi, non si sa) fine al mio dolore?’ Lo so, è un ragionamento da egoisti, si tratta di anteporre le proprie emozioni a quelle degli altri, che forse tanto bene nemmeno se la stanno passando.

La mia isola felice, quando credevo che la mia vita fosse al posto giusto al momento giusto, ha iniziato a sprofondare nel mare più aperto e burrascoso, lasciandomi sola e alla deriva. Prima di annegare, per fortuna ho trovato delle persone che mi hanno lanciato delle scialuppe di salvataggio, che hanno eretto una fortezza tutta intorno a me per proteggermi, mentre io cercavo di capire cosa farne del mio cuore andato in mille pezzi. Nel marasma, mi sono sentita dire un sacco di frasi. Mi hanno assicurato che al momento le avrei ritenute tutte di circostanza, ma in realtà poi le avrei assimilate e fatte mie, realizzando che non c’è verità più profonda dei luoghi comuni (magari non tutti, ma se sono diventati luoghi comuni, un motivo deve pur esserci).

Da allora, dall’inizio di questo maledetto 2019, ho iniziato pian piano a riprendere a spizzichi e bocconi la mia vita in mano, a rimettere insieme il puzzle e crearne uno esclusivamente mio, tutto mio da poter ammirare e apprezzare, per capire fin dove, da sola, sia in grado di arrivare. Ed è arrivato anche questo momento, in cui ho pensato che sì, sono una roccia, che la vita mi stava regalando nuove prospettive e nuovi modi differenti di capire le cose, ad essere più tollerante e smussare gli angoli delle mie certezze più radicate, perchè non c’è intelligenza più profonda dell’abilità di mettersi costantemente in gioco, costantemente in discussione.

E poi, proprio mentre decido che giugno è il mese del giro di boa, il mese di svolta dell’annus horribilis, si rifanno vivi i fantasmi del mio passato. Mi stavano aspettando, mi volevano dire che con me non avevano ancora finito, che c’è ancora del lavoro da fare e sono lì a chiedermi il conto, quando pensavo in realtà di aver saldato abbondantemente il mio debito con il cosmo. Ancora una volta, mi hanno messa a dura prova, mi hanno fatto capire che la frase ‘peggio di così non può andare’ deve essere abolita dal mio vocabolario, perchè in realtà al peggio non c’è mai fine.

Sono arrivata a pensare che questo sia lo scotto da pagare per aver vissuto un 2018 da togliermi il fiato, tra viaggi, soddisfazioni lavorative e tutto l’amore del mondo. Probabilmente, invece, le cose devono capitare quando devono capitare. Una volta Beyoncè, in un’intervista, ha detto che i fallimenti arrivano quando meno ce lo aspettiamo, ma occorre accettarli, e imparare la lezione. Non si è mai troppo pronti, troppo adulti, troppo saggi per i fallimenti. Succedono quando devono succedere.

Quello che sicuramente ho capito, è che dipende molto dallo spirito con il quale si affrontano le situazioni, e in questo mi sento decisamente migliorata. Ho capito che piangersi addosso non serve assolutamente a nulla, e che la felicità bisogna ritagliarsela in quei piccoli momenti che possono sembrare banali, ma in realtà necessari. Forse hanno ragione tutti quando dicono che le cose non capitano a chi dovrebbe proprio meritarsele, ma alle persone più buone, quelle migliori rispetto a tante altre che continuano a marcire nelle loro piccole, insulse convinzioni, sebbene in realtà siano morte dentro e, a ben guardare, tanto bene non sono messi nemmeno loro. Diciamo che io mi sento di aver avuto un colpo brusco, dal quale poi ne uscirò a testa alta, col tempo e le dovute precauzioni. Loro, invece, hanno addosso una malattia cronica che porteranno per sempre addosso.

Ma i conti in tasca agli altri non portano da nessuna parte. Ogni mattina, ciò che troviamo davanti allo specchio è solo il nostro riflesso. E per quanto i fattori esterni possano influenzarci negativamente o positivamente, siamo solo noi che dobbiamo decidere come reagire, trovare la forza per andare avanti sempre. I momenti bui ci saranno, in modi e tempi che mai ci saremmo aspettati, ma anche in quel caso dovremmo concederci la libertà di cadere per soli 5 minuti, e capire quale sia la nostra scelta migliore per risollevarci.

Nel frattempo, caro 2019, potresti andar via?

Jessica

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Caro diario…

Caro diario,

mi ritrovo a scrivere dopo un bel po’ di tempo, a riversare su uno schermo parole che scorrono lungo la tastiera e che forse ho taciuto per troppo tempo.

A volte basta un fermo immagine, una parola ascoltata casualmente da uno sconosciuto per strada, per aprire un varco nei ricordi, nelle riflessioni quotidiane. Allora perchè non riporle, confezionarle e rilasciare il prodotto finito? E’ una terapia, un modo per condividere, discretamente, tutto quello che c’è da affrontare nel quotidiano.

Mi sono imbattuta spesso in frasi, riflessioni, che soprattutto in questo ultimo periodo ho sentito scorrermi addosso, come se le avessi scritte io o fossero lì apposta per me, esattamente le parole di cui avevo bisogno.

Ecco, mi piacerebbe che coloro che si soffermano a leggere, a leggermi, possano rintracciare pezzetti del loro vissuto, a non essere d’accordo con me, a farsi una risata o a lasciar scorrere una lacrima.

Mi chiamo Jessica, ho 28 anni, lavoro nel campo del marketing e amo il mio lavoro, così come i miei colleghi. Sono campana ma vivo a Milano da ormai cinque anni. Ho il mare nel cognome, nell’anima e nelle vene. Probabilmente è una delle cose che più mi manca e alla quale non mi abituerò mai. Mi piace, ogni volta che posso, perdermi nei tramonti che si dissolvono nel mare di casa mia, sentire il fiato che mi manca e bere avidamente ogni riflesso prima che vada via, lasciando scie di colori che nessun filtro potrebbe mai riprodurre.

Ho il mare nel cognome, nell’anima e nelle vene

Per il resto, sono molte altre cose, altre un po’ meno. Le leggiamo insieme?

Jessica