Pubblicato in: èsololavita

All I want for Christmas…

Caro Babbo Natale,

iniziamo subito col dire che io ti penso durante tutto l’anno, ma devo adeguarmi a tutti per non sembrare una fanatica del Natale. Tutti pensano che io lo sia. Non capisco proprio da dove provenga questo accanimento nei miei confronti. Ma soprattutto nei tuoi. Ecco, potresti prenderne atto e portare loro del carbone…magari gonfiando il mio, di regalo. Sai com’è, dovrebbe esistere la legge di compensazione, l’ho letto da qualche parte.

Com’è che inizia la letterina che ti scrivono i bimbi? ‘Quest’anno sono stato/a bravo/a‘ e mentre lo scrivono con quelle penne tremolanti in mano nell’incertezza di chi si appresta da poco a riempire le paginette di vocali e consonanti, sanno di mentire spudoratamente. Mentre compongono quella frase, probabilmente anche dettata dai genitori accomodati accanto a loro in soggiorno, i bimbi sanno che quella è una bugia, e che le bugie non si dicono. I genitori, d’altro canto, sono adulti e le bugie le dicono anche loro, a volte di una certa importanza. Quindi chiudono un occhio e vogliono semplicemente che i loro pargoli si godano la gioia di aspettarti e vedere se tu abbia consegnato o meno quanto richiesto.

Io non sono una bambina, e nemmeno avulsa da errori. Quindi togliamoci subito questo dente: non posso dirti che in 365 giorni mi sia comportata sempre bene. Sono un’adulta, e in quanto tale, sbaglio. Quindi, caro Babbo, quest’anno, come la maggior parte delle persone su questa Terra, ho commesso errori, non mi sono comportata sempre bene e so che col senno di poi avrei potuto reagire o comportarmi diversamente. Apprezza la sincerità, per favore. Ti posso dire d’altro canto che sono migliorata in un sacco di cose, ma se tu sai tutto, dovresti sapere anche questo. Dovresti sapere che ho imparato tante cose, mi sono messa in gioco in situazioni nuove e cercato di scrollarmi di dosso quelle vecchie. Sai benissimo che avrei potuto fare scenate e sceneggiate quando ho saputo o visto determinate cose, ma non l’ho fatto. Avrei potuto vivere situazioni con un po’ troppa leggerezza. Ma, ancora una volta, ho preferito non farlo. Per me, non per gli altri.

Per quest’anno, Babbo, non ti chiedo nulla di speciale, perché il troppo stroppia e mi sono accorta che la vita chiede lo scotto per ogni momento di gioia, prima o poi. Quello che ti chiedo per quest’anno, se ti è possibile, è di concedermi l’armonia che provo quando torno a casa e faccio un po’ mia la magia del mio alberello che vedo alla mia sinistra quando mi siedo sul divano. Ti chiedo di preservare quel bagliore che poi mi resta negli occhi, e quel sospiro di sollievo che riesco a tirare quando, da sola, mi accoccolo a guardare un film o una serie tv. Ti chiedo che questa pace interiore possa accompagnarmi per gran parte della mia vita: ho sudato tanto per conquistarla, ho perso tanto per ottenerla. So che queste cose non dovrei nemmeno chiederle a te, ma dovrei indirizzare la lettera a me stessa.

Ma che ci posso fare, io credo in te, l’ho sempre fatto. Anche quando una bimba un po’ stronzetta (scusa) mi ha detto che tu non esistevi, io sono corsa subito da mamma e le ho chiesto se fosse vero. Lei mi ha risposto che Babbo Natale esiste per chi ci crede. Tu per me esisti perché ci credo, da sempre. Quindi ti chiedo solo questo. Se voglio comprarmi qualcosa lo faccio da me, con un po’ di fatica, ma non fa nulla. Se questo serve a mantenere ciò che ho proprio ora, va bene così.

Poi per il resto, come direbbe Massimo Troisi, ‘ij nun avessa parlà proprio…’

Tua per sempre, ti aspetto.

Jessica

PS: i biscotti vicino all’albero non li hai mai trovati perché li facevo troppo buoni e andavano sempre a ruba, spero mi perdonerai 🙂

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Quando viene dicembre…

Le persone che addobbano casa prima del tempo sono le più felici.

Ogni volta che leggo questa frase mi viene un’orticaria che si diffonde in tutto il corpo, e anche un prurito alle mani che mi farebbe venir voglia di andare a cercare queste presunte fonti scientifiche per vedere sulla base di cosa arrivano a queste conclusioni.

Per carità, non mi lamento affatto, ma decorare casa in anticipo, ovvero prima dell’Immacolata, data convenzionalmente accettata per fare l’albero di Natale, significa davvero essere più felici rispetto ad altre persone? Io amo le luci, amo tornare a casa e ammirare il mio alberello che ogni anno si veste di una decorazione in più regalata o comprata in luoghi particolari. Amo fare regali e vedere la gioia negli occhi di chi li riceve, più di quanto ami riceverli io stessa. Amo sentire quelle campanelle in giro per la città e le canzoni profuse in ogni angolo delle strade. Quest’anno ho fatto l’albero il… no, lasciamo stare. Per un briciolo di dignità non vi dirò quando ho fatto l’albero. A mia difesa posso dire che ho avuto un periodo molto impegnativo a lavoro, per cui decorare casa sarebbe stato un discorso da slittare troppo in là, quando per me sarebbe stato scandalosamente tardi. Ah, e ne parlo solo ora perché i miei amici accettano la mia, come dire, passione smodata solo nel mese di dicembre e sono costretti a veder consumarsi l’ineffabile destino senza poter dire una minima parola.

Detto questo, devo dissentire dai fantomatici scienziati che affermano che le persone più felici decorino prima casa. Cari scienziati, se solo sapeste cosa ho dovuto affrontare quest’anno, ci pensereste due volte prima di sparare delle affermazioni senza senso. Un po’ come quei comunicati che ti ritrovi di tanto in tanto in cui dicono che i primogeniti sono più intelligenti degli altri fratelli, o che la birra faccia dimagrire, insomma quelle affermazioni così.

Non posso però non ammettere di provare un calore nel petto quando i miei amici leggono notizie sul Natale e mi dedicano un po’ del loro tempo, perché quella determinata cosa li ha indotti a pensarmi. L’ultima proprio ieri, quando una mia amica mi ha scritto un messaggio. Lei da un po’ di tempo ha abbandonato i social e non ha bisogno di quelli per ricordarsi di una persona. In tv aveva sentito questa notizia accertata da fonti presumibilmente scientifiche, e mi ha pensata. Questa dovrebbe essere la felicità, lo spirito che dovrebbe portare il Natale: tornare alla memoria delle persone a cui si tiene.

Durante il periodo natalizio, inevitabilmente si abbozza un bilancio dell’anno, a tavola si notano i posti vuoti occupati da persone che non ci sono più o non hanno voluto più esserci, e le prime sono sicuramente quelle di cui si avverte maggiormente la mancanza. Penso a mio nonno, che voleva sempre tutta la famiglia riunita. O a mio zio, che in silenzio osservava le risate di tutti appoggiato allo stipite della porta, sempre troppo timido per poter lanciarsi nella mischia a tutti gli effetti. Ricordo che, quando andavo a vedere i cartoni Disney che davano alla tv e mi accoccolavo sul divano, in silenzio veniva a cingermi con un plaid per tenermi al caldo. Per me il Natale è questo, è la memoria di chi non c’è più e vive ancora in noi, è la voglia di costruire nuovi ricordi e dar vita a nuove tradizioni con la famiglia e con chi consideriamo famiglia.

Forse chi addobba casa in anticipo non deve essere più felice rispetto agli altri. Semplicemente, ha scelto di godere appieno il momento con le persone che ama, nonostante le mancanze, nonostante tutto.

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Ciuffo

L’altro giorno guardavo il mio riflesso nel vetro della metro, cercando di sistemare alla meno peggio i miei capelli tormentati dall’umidità e dalla pioggia che attanaglia Milano nelle ultime settimane. Nello spostare i capelli da un lato all’altro, rivedo per un attimo la me di qualche mese fa, di quando portavo ancora il ciuffo laterale. Da quanto tempo portavo quel ciuffo, proprio non saprei dirlo. Da quando ho iniziato la scuola, da quando ho iniziato a fare foto con il rullino. Da troppo insomma. A volte ho alternato il ciuffo ad una frangia, ma la sostanza poco cambiava. Sebbene abbia modificato lunghezza dei capelli nel corso degli anni, il ciuffo era sempre la costante pronto ad incorniciare sempre il mio volto.

Poco prima dell’estate invece, sono andata da un parrucchiere mai sperimentato prima. Mi ha vista ex novo, una tabula rasa sulla quale lavorare, senza conoscere ‘i miei precedenti’. Per questo, mi ha asciugato i capelli davanti con due ciocche aperte sui lati. Da quel momento ho iniziato anche io ad asciugarli in quel modo. E non ho più smesso. Non sapevo di potermi vedere con un look diverso dal solito, non pensavo che con una piccola modifica potessi vedermi tanto diversa. Eppure non mi dispiace. Per la prima volta, dopo troppi anni, ho iniziato a cambiare, ad uscire dalla solita via maestra.

Chi lo ha detto che la comfort zone sia così comfort?

Da piccola ho imparato il detto ‘non cambiare mai la strada vecchia per la nuova…sai quello che lasci, ma non sai quello che trovi‘. Non è sempre sbagliato, anzi. Molto spesso mi sono ripetuta questo mantra da sola, proprio perché è così confortante battere un terreno familiare, praticabile anche ad occhi chiusi. Tuttavia, a volte anche ciò che ci risulta familiare può presentare tante insidie. Anzi, proprio poiché ritenuto familiare, fa ancora più male nel momento in cui ci viene posto un ostacolo oppure un imprevisto.

Ergo, se tanto mi da tanto, se nemmeno la strada imparata a memoria a menadito è così rassicurante, perché non cambiare? Quando ero una drogata della serie tv ‘Grey’s Anatomy’ ricordo una frase che diceva Meredith, la protagonista: a volte il cambiamento è tutto. Il cambiamento spaventa, ma quando poi si arriva dall’altra parte della sponda del fiume, ci guardiamo indietro e possiamo solo sorridere al solo pensiero di come abbiamo fatto ad affrontare tutto questo, ad essere arrivati dall’altra parte. Non è stato facile magari, ma è proprio questo il bello: non smettere mai di porsi nuove sfide, misurarsi con le novità e capire quanto siamo bravi nell’affrontarle, davvero bravi.

Mi guardo nella metro, e aggiusto di nuovo le ciocche come sono abituata oggi. Chissà, magari un giorno porterò ancora un ciuffo laterale, ma sarà sicuramente diverso, gestito diversamente. Questo discorso è tutta una grande metafora? Può darsi. Per il momento va bene così. Tutto per un ciuffo!

Jessica

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Benvenuti a bordo!

Stamattina ero in aeroporto, in partenza per un viaggio di lavoro, e come sempre, i miei piedi erano ben saldi a terra, la mano serrata sul manico del bagaglio a mano, ma la mentre era altrove. Mi sono ritrovata a viaggiare con la mente prima ancora che col corpo. Solo che, a discapito di quanto possa affermare la fisica, io viaggiavo nel passato. Ogni volta che mi sono ritrovata in aeroporto, ma anche in stazione, da sola pronta a partire, ho sempre una mistura di sentimenti che toccano tutta la scala cromatica, dalla malinconia alla paura all’eccitazione.

C’era un tempo, prima ancora della fobia degli attentati, prima ancora delle nevrosi ingiustificate per un bagaglio lasciato per mera distrazione, in cui chiunque, spassionatamente, poteva dire di andare a prendere un caffè in aeroporto. Il mio papà mi ci portava per davvero, e la sola idea di vedere quegli aeroplani abbandonare man mano il suolo mi faceva viaggiare con la fantasia, sebbene fossi troppo piccola e già troppo vecchia per poter sviluppare pensieri simili. Oggi, ogni volta che mi reco all’aeroporto, penso sempre al mio papà. Forse è stato proprio lui, in quel modo, a instillarmi l’amore per i viaggi. Chissà. E questa è la malinconia che mi porto addosso prima di una partenza. Ma di quelle sensazioni piacevoli, di cui si è grati per averle vissute e troppo consapevoli da capire che proprio quei piccoli momenti erano e restano tutt’ora impagabili e inestimabili.

Mentre formulo questi pensieri, mi ritrovo già davanti ai soliti imbruttiti in fila almeno un’ora prima che apra il gate, giusto per assicurare il posto alle proprie valigie esattamente sopra le loro teste, così da poter schizzare fuori non appena si arriva a destinazione. Purtroppo vengo travolta anche io da questa smania, ma giusto per evitare di guardare male chi si appropria indebitamente del mio minuscolo spazio vitale. In un attimo salgo sul transfer, poi le scale, saluto lo steward e mi ritrovo seduta al posto assegnatomi. In quel preciso istante inizio a rendermi conto di quanto sia piccola quella scatoletta di tonno, ma cerco di non pensarci, anzi faccio affidamento al mio solito kit da viaggio: libri e settimana enigmistica. Poco riescono a distrarmi quando le hostess iniziano ad indicare le uscite di sicurezza, oppure quando è proprio il capitano a prendere parola e si sforza tantissimo per non farsi capire. Ma io devo sapere se balliamo, anche se non è il mio unico disagio in volo.

Il punto è che, nonostante questo slancio incontrollato ad esplorare tutte le città non ancora visitate e spuntare man mano le caselle dal mio infinito elenco, con l’avanzare dell’età sviluppo sempre più un’intolleranza ad imbarcarmi e a tremare ad ogni minima turbolenza, sebbene tutti i miei vicini di posto sembrino totalmente a loro agio.

Credo che gli atterraggi aerei debbano essere inseriti negli elenchi di esperienza pre-morte. Anzi, rilancio. Visto che il merchandising religioso sembra non essere mai abbastanza, aggiungerei un’esperienza di volo e annesso atterraggio con alcune compagnie low cost, perché se non si vedono la Madonna, gli angeli e i cherubini in quegli istanti non so davvero come siano messi nell’alto dei cieli. Noi, quaggiù, li imploriamo sempre quando ci accingiamo a toccare di nuovo il suolo. E quando ciò accade, ogni volta mi sento come il Papa che bacia la terra. È solo per una questione di dignità mista a schizofrenia che non lo faccio. Ma credo che quasi tutti temano quei secondi che precedono la frenata. Chi non lo ammette, mente. Il resto che afferma ‘ma tanto manca poco a toccare terra, cosa potrebbe mai succedere?’ lo ammazzerei. Tutti. Inutile che fate i finti razionali. Le paure non si spiegano, chiunque può usare la logica, quindi lasciatemi vivere questo momento di irrazionalità incontrollata!

E poi arriva l’eccitazione, il fare propria, seppur per pochissimo tempo, una città sconosciuta, familiarizzare con una lingua diversa, col cibo (beh, sopravvivere in alcuni casi). Che si tratti di un viaggio di piacere o di lavoro, non potrei mai smettere di spostarmi: innanzitutto perché potrei anche ritrovarmi senza un lavoro. Ma poi, volete mettere la sensazione di ritrovarvi dall’altra parte, di perdervi nelle stradine ed osservare il flusso ininterrotto di gente distratta, che viene e che va, come cantava Pino Daniele?!? Ogni volta che si visita una città, che sia una settimana o solo per un weekend, sembra sempre di aver vissuto una realtà parallela, si perde la cognizione del tempo, sembra che tutto sia cambiato, ma in realtà siamo noi ad essere leggermente diversi: ci siamo arricchiti di nuovo gli occhi, abbiamo scoperto bellezze diverse da quelle a cui siamo solitamente abituati, abbiamo affinato il nostro spirito di avventura. Ci siamo adattati, ancora una volta.

In ultimo – last but not least – c’è una sensazione che amo più di tutte, che segue il momento in cui la valigia trasuda di cimeli pronti a cercare posto su mensole, in cornici, sulla porta del frigo: aprire la porta e tornare a casa mia.

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Vintage

Quando abbiamo smesso di distribuire pulviscoli di umanità al resto del mondo? Quando abbiamo iniziato a calare la testa e fingere che tutto ciò che ci circonda non è affar nostro?

Sono queste le domande che mi sono posta in un pomeriggio di ottobre, mentre le giornate si fanno sempre più brevi e dal treno osservavo le distese della pianura padana. Mi sono guardata in giro, nel vagone dove mi trovavo, ed erano veramente poche le persone intente a leggere un libro, addirittura un giornale. Il resto dei passeggeri aveva, come di consueto, la testa affondata nei cellulari. Mi sono chiesta ‘ma prima dell’avvento dei telefoni, come trascorreva il tempo, la gente?’. La prima risposta istintiva che mi viene è leggere un libro. Ma quella meno ovvia e più preziosa, per me è la seguente: la gente si parlava, attaccava bottone, avviava una conversazione col proprio vicino. Mi rendo conto che oggi queste abitudini stanno scemando sempre più, ma non posso fare a meno di domandarmi quanto male ci stia facendo questo strumento nei rapporti interpersonali. Certo, non avevo bisogno di un viaggio in treno per rendermene conto: basta osservare i pendolari, che quotidianamente viaggiano in tram, autobus, metro. Il nuovo upgrade prevede l’impiego degli smartphone per guardare le serie tv, totalmente isolati da tutto.

Spesso, troppo spesso, ci dimentichiamo di osservare il mondo che ci circonda, tutte le vite che ci passano accanto. Preferiamo conoscere gente sui social piuttosto che avviare una conversazione spassionata con qualcuno che ci sorride. Oppure, caso inverso, se conosciamo qualcuno di persona, lo/la cerchiamo sui social per scavare nei dettagli, invece di scoprirli di persona in un bar. Non ne sono esente, mio malgrado, ma non posso fare a meno di chiedermi dove sia finita tutta l’umanità, quel minimo di fiducia nel prossimo. Qualsiasi gesto, anche quello in apparenza più disinteressato possibile, nasconde in realtà un proprio tornaconto. Non credo che in passato non ci fossero manifestazioni di tali atteggiamenti, ma sono convinta che si presentassero in misura ridotta.

Ogni volta che sento racconti di persone più “grandi”, c’è sempre un citofono a farla da sfondo, oppure una chiamata breve semplicemente per accordarsi per un caffè. Se penso ad oggi, invece, ci sono le spunte blu di Whatsapp, il visualizzato senza risposta, l’attesa di almeno 30 minuti prima di rispondere ad un messaggio altrimenti siamo sfigati. Sì, siamo sfigati. Ma i motivi sono ben altri. Siamo sfigati perché abbiamo dimenticato come ci si relaziona con la gente; sfigati perché prenotiamo un ristorante con le app piuttosto che perdere due minuti al telefono; sfigati perché ora anche le ordinazioni sono ‘smart’, e il cameriere non ti consiglia più il piatto del giorno. Stiamo assorbendo per osmosi questa ondata interminabile di tecnologie, indubbiamente belle, ma a quale prezzo?

Il prezzo, a parer mio, è la spersonalizzazione, è indossare quel dato maglione perché lo aveva su la tipa famosa su instagram, è fare delle stupide challenge solo perché va di moda, è scoprirsi sempre più in una foto, altrimenti non si raggiungono i like auspicati per diventare promotori di bevande ritenute miracolose. Nel frattempo, magari, la mamma avrebbe bisogno di un aiuto, o semplicemente avrebbe il piacere di trascorrere del tempo col proprio figlio.

Prima di fotografarlo, avete visto un tramonto per davvero? Ci fate caso che quelle sfumature catturate ad occhio nudo nulla possono con i pixel della vostra fotocamera? Quante volte poi avete modificato la foto di un paesaggio perché non rendeva come dal vivo? Avete mai visto un tramonto, veramente? Perché se la risposta è sì, tutti i like del mondo non valgono la candela.

Per questo, e molti altri motivi, mi piace definirmi ‘vintage‘, perché credo fortemente in valori che purtroppo si stanno perdendo sempre più. Vedo i ragazzini di oggi e un po’ mi spaventano: so che potrebbero mettermi nel sacco da un momento all’altro. Sebbene non abbia tutta questa differenza di età rispetto a loro, ne percepisco fortemente il distacco, la perdita di tutti i valori che un tempo erano assolutamente necessari. Ci ritroviamo circondati da un esercito di esaltati lobotomizzati incapaci di sviluppare discorsi di senso compiuto, fatti tutti con lo stampino, come dei diligenti prodotti di fabbrica. Mi rendo conto che invece, in un passato nemmeno troppo remoto, si viveva con decisamente meno e i nostri genitori erano nondimeno felici, anche senza i social, ma vi rendete conto quei pazzi? Chissà come avranno fatto a sopravvivere…

Chissà come faremo noi, a sopravvivere, se la necessità è quella di compiacere gli altri e mai sé stessi, dimenticandoci sempre più che avremmo tutti bisogno di un po’ di gentilezza in più. Questo sarebbe il prezzo, ma ne vale la pena?

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Puntualità.

Vi è mai capitato di leggere un libro, una frase, anche semplicemente un estratto, e pensare che quel passaggio parla proprio di voi? Sembra sia stato messo lì apposta per voi? A me è capitato la settimana scorsa.

Ero in metro, cercando di trattenere un magone assurdo dopo aver finito di leggere la biografia riguardante Massimo Troisi, ‘Caro Massimo‘ di Matilde Hochkofler, quando decido di cambiare decisamente genere letterario. E’ in quel momento che, dalla mia lista del kindle, inizio a spulciare il libro ‘Resti?’ di Riccardo Bertoldi. Ed è sempre in quel momento che, leggendo solo le prime cinque pagine, resto pietrificata.

Questo è ciò che mi sono ritrovata a leggere:

Ciao Elisa,

ti ho amata con tutti i se, i ma, i però.

Ti ho amata in tutti i modi in cui si può amare una persona. Ti ho amata nonostante tutto, lì dove si nascondono le emozioni, quelle autentiche.

Ma in fondo doveva andare proprio così, no? Ce lo siamo sempre detti: ci sono persone che si sono amate talmente tanto che a un certo punto non si parlano più.

Oggi ti scrivo per dirti che d’ora in poi non ti cercherò, te lo prometto.

Mi sono detto che forse credo di amarti ancora solo perché sei andata via senza mai voltarti indietro. Siamo fatti così, amiamo la cose che non tornano più.

Quest’anno la tua assenza è stata più presente che mai. Ma voglio dirti che non smetterò di scegliere l’amore, e che il tuo abbandono mi ha insegnato che stare accanto a qualcuno significa avere il potere di ferire senza farlo mai.

Sei scappata via terrorizzata perché avevi paura del futuro. Lo so, non è facile superare la prima fase di un amore giovane, quello di chi si bacia per strada perché ha voglia di urlarlo al mondo, e scoprire che una storia d’amore non è solo sorrisi inaspettati, lenzuola d’amore, trampolini nella pancia. Ma anche porte che sbattono, urla isteriche fatte di secchiate di parole che non si pensano, pianti di notte, paura di perdersi senza perdersi mai. Scegliere di avere qualcuno al proprio fianco significa prendersi anche la responsabilità di renderlo felice, di capirlo, di farlo sentire al sicuro, a casa, in un posto in cui tornare quando la vita picchia duro.

Tutto questo ti ha spaventato, e lo capisco. Però a volte bisogna disinnescarli, i litigi; fare un passo indietro per andare un passo avanti, ché in amore non serve avere sempre ragione. A dire il vero l’amore non ha bisogno di nessuna ragione. E anche se quello che più desideravo alla fine non è accaduto, non sono arrabbiato con te.

Avrei solo desiderato che mi volessi accanto nella lentezza della quotidianità, quando usciva fuori quell’autenticità che riservavo unicamente a te. Avrei desiderato che fossi gelosa dei miei difetti.

Oggi sono qui per lasciarti un bacio per tutto quello che siamo stati, uno per quella che sei, e uno per quella che sarai il giorno in cui sentirai che non ti manca più nulla.

Non so esattamente cosa non ha funzionato fra noi; so solo che a un certo punto ci siamo incasinati l’esistenza a vicenda ed era già troppo tardi.

Ma se un giorno una punta di malinconia farà breccia nel tuo petto e ripenserai a noi, non piangere: alle lacrime ci ho pensato io.

Tu sorridi.

Ti prego.

Andrea, il protagonista del romanzo, scrive una mail alla sua Elisa, dicendo agli amici che sarà l’ultima volta, l’ultimo contatto. Dopo averla cancellata dai social, la mail è l’unico e l’ultimo mezzo che utilizza prima di darle il suo addio, che lei ha già dispensato tempo addietro.

E niente, ho dovuto rileggere questa mail almeno un paio di volte, guardarmi intorno per capire se fosse uno scherzo o meno. E’ che la vita è così strana e così puntuale, ti spiattella in faccia lasciti di un’esistenza fa e ti riconosci, disarmata, in situazioni vissute anche da tantissime altre persone che ti capiscono.

Aggiungi anche un periodo di ricordi legati a ricorrenze, e ti viene solo da pensare: la vita…’sta stronza.

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Cuori spezzati e tempo

‘Ma in generale, come stai?’

Tu come mi vedi?’

‘Bene, sei bellissima.’

‘Allora sto bene.’

Vi vedo, vi osservo. So che vorreste proseguire. Lo vedo dai vostri occhi. Ma voi d’altro canto, vedete i miei di occhi, che vi dicono che non ho proprio voglia di parlarne. Non ho voglia di riaprire il vaso e raccontare tutto daccapo, sebbene tempo fa avrei pagato qualcuno per strada per farmi ascoltare e farmi spiegare quanto tutto fosse così assurdo.

Un’altra fetta di voi, invece, sento che vorrebbe parlare. Sento che vorrebbe dirmi qualcosa che sa, o che ha visto. Ma non lo fate perché sapete che io ho chiuso, e rispettate questa scelta. Vi ringrazio per questo. Ma io osservo, vi vedo. E lo so.

C’è una sorta di riconoscimento tra i cuori infranti. Li vedi, e capisci che sono simili. Che ieri, o in un passato remoto, hanno avuto il cuore spezzato. E tu sai di poter contare su di loro, perché sanno di cosa stai parlando, lo sanno. Se per assurdo potessimo camminare per strada con la vista a raggi X, scopriremmo che i cuori spezzati sono molti. Forse troppi da poterli contare. E io potrei parlarvi del kintsugi, l’arte giapponese di riparare gli oggetti rotti utilizzando l’oro, perché ogni rottura deve essere impreziosita, deve essere visibile, poiché è il frutto di ciò che poi è diventato: qualcosa di speciale, bellissimo, unico. Qualcosa che ha visto momenti peggiori, e da questi ne è venuto fuori. Certo, i vasi non fanno questi ragionamenti. Ma noi si, e con noi i nostri cuori pure. Posso raccontarvelo. Posso dirvi che lo scotch e la colla non sono sufficienti per rimettere a posto i pezzi, che alla fine siamo noi a decidere se il vaso sia da buttare oppure no. La verità è che per i nostri cuori infranti, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è il tempo.

Che cosa preziosa il tempo. Quante volte lo diamo per scontato? Quante volte abbiamo pensato ‘questo può aspettare, c’è tempo…’? Quante volte lo abbiamo sprecato, buttato, sottovalutato?

A volte non è mai abbastanza, a volte vorremmo fermarlo. Altre ancora vorremmo ritrovarci catapultati verso un futuro ignoto dove non esiste più ciò che si sta provando in quell’istante. Tutto pur di andare avanti, di smetterla di trovarsi in inutili ricadute, o di vedere l’ombra lasciata alle spalle del maledetto limbo. In realtà, sono proprio questi i momenti necessari per poter svoltare, per poter apprezzare ciò che verrà e per capire che siamo già nel futuro. Abbiamo capito dove riporre il vaso per impedire un’ulteriore rottura, perché in fondo non sta tanto male lì nell’angolo circondato da cuscini piuttosto che sullo spigolo del tavolo, accanto alla porta.

C’è stato un tempo in cui una mia carissima amica ha paragonato il mio cuore ad un puzzle. I pezzi erano troppo piccoli e troppo simili tra loro per poterne cavare un ragno dal buco. Questo è il messaggio che mi ha mandato un giorno, proprio mentre insieme stavamo ultimando un puzzle che ora è sulla parete di casa mia e che ha assunto un significato del tutto nuovo.

Cucciola, non pretendere troppo da te e dal tuo cuore. Deve riprendersi, deve rimettere insieme i pezzi. Quanto tempo ci abbiamo messo per il puzzle? Quante bestemmie? Ecco vedi il tuo cuore è così, come un puzzle. Pezzo per pezzo lo stai completando. Ci vuole tempo, parolacce e imprecazioni, ma poi è stupendo. Ti senti soddisfatta quando guardi il puzzle appeso al muro? Lo sarai anche con il tuo cuore alla fine. Ecco quindi vuol dire che hai bisogno di tempo. Lo hai completato ma poi lo hai smontato, evidentemente non era ancora il momento di averlo pronto. Poi lo hai finito, e ora è stupendo.
Sarà così anche per il tuo cuore, magari ha bisogno di più tempo per essere completato per bene.

Si riconoscono subito i cuori spezzati. Sono quelli che preferiscono stare in disparte, e quando si riconoscono tra i loro simili, è come se dicessero ‘sono qui, lo so, e ti capisco. Non c’è un modo facile, e nemmeno veloce a dirla tutta. Sentirai dirti tante cose, ma non darci troppo peso. Ognuno si sentirà in diritto di raccontare la propria storia, di confrontarla con la tua, ma solo tu sai. La verità è che niente di prezioso si ottiene con la fretta. Ma i cuori spezzati sono tutti uguali, lo riconosci in quegli istanti in cui, dietro ad una risata, gli occhi si ricoprono di una leggera patina. Ma è solo un attimo. Può durare un mese, due, tre. Forse di più. Ma poi passa. Il tuo cuore è l’unico oggetto su cui praticare il kintsugi, perché è l’unica cosa che ti resta, e poi l’unica che conta davvero’.

Datevi tempo. Datti tempo Pupetta. Hai sempre voluto strafare. Hai sempre cercato di essere la prima della classe, di essere quella precoce. Dovevi andare in primina, essere un anno più piccola rispetto ai tuoi compagni di classe e far vedere che nondimeno eri altrettanto capace. Appena vedi qualcosa la assimili subito, soprattutto se ti piace. Ricordi una canzone a memoria a distanza di anni, ricordi qualche battuta dei film o citazioni di libri. Ti ricordi ancora qualche poesia a memoria, cazzo! Questa volta però non devi dimostrare un bel niente a nessuno. Sei solo tu con le tue paturnie. Per una volta tanto, concediti il lusso di non essere la prima in tutto. Fermati. Datti tempo, non può svanire tutto da un giorno all’altro. Domani puoi svegliarti e tornare a sfondare il muro dei tuoi record. Ma di tanto in tanto, fermati.

Jessica

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“E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali”

Ricordate quando, in qualche post fa, ho fatto cenno del proverbio napoletano ‘chi chiagne fott a chi ride’? Ebbene, mi sembra che i tempi siano maturi per poter affrontare questo discorso. Questo detto trae ispirazione da quelle innumerevoli persone che sentono la costante necessità di lamentarsi, anche senza una motivazione valida. Le ragioni possono essere le più disparate: predisposizione caratteriale, ignoranza, scaramanzia (e quindi, ignoranza ancora). Qualsiasi sia la causa scatenante, un solo imperativo è categorico: la GENTE deve credere che tu te la stia passando male, sempre e comunque. Non è concesso far sapere agli altri che per un giorno tutto può andar bene, che organizzi un viaggio, che ti rialzi dopo una caduta, perché nella maggior parte dei casi la risposta è una soltanto, beato te…

Coloro che piangono, fottono coloro che ridono. Questa sarebbe grosso modo la resa in italiano, ma perde la carica di significato, perde l’amarezza di chi realizza che, sorridendo, deve sentirsi dire sempre un ‘beato te’ di accompagnamento. Beato te che sei andato qui, beato te che hai un lavoro, beato te che ti sei laureato, beato te…

Ci sono diverse categorie di personaggi che potrebbero essere menzionati. Si passa dallo studente simpaticone che arriva all’esame dicendo di non sapere nulla e poi puntualmente firma per il 30; chi ad un banale ‘come stai?’ non ti risponde mai ‘bene’, ma anche il caldo, il freddo, la pioggia, l’aria che si respira può essere indice di fastidio. Fino ad arrivare a loro, quelli più subdoli, e anche un po’ cattivelli. Coloro che in realtà stanno bene, ma che hanno la necessità di mostrarsi al mondo come cani bastonati, quando in realtà le percosse non le hanno mai ricevute, ma solo date. Quelle persone che hanno l’abilità di tramutare la vittima in carnefice, sebbene la storia sia ben diversa. Molto diversa. Anche loro piangono e fottono.

A tal proposito, mi piace tantissimo una citazione di Alda Merini:

E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali.

Alle persone piace soffermarsi alla superficie delle cose, che fatica sarebbe cercare altri significati o chiedersi il perché di determinate azioni! Quando sei bruco, decidi tu se mostrarti al mondo o meno. E’ una mera questione caratteriale: c’è chi vuole condividere con tutti, e chi rintanarsi nella propria tana prima di esporsi nuovamente alla luce del sole. Io mi riconosco sicuramente nella seconda categoria. Non perché il bruco non sia bello, ma per il semplice motivo che, per poter uscire dal bozzolo, ha bisogno di costruirselo da solo. Ha bisogno di capire quanto sia importante il tempo impiegato e la qualità del tempo trascorso. Solo dopo, con pazienza, viene fuori la farfalla. E non sarà solo bella, ma anche consapevole di com’era, di cosa ha lasciato alle spalle e della sua capacità di reinventarsi per cavarne qualcosa di buono per sé e per gli altri.

In quest’ottica, chi ‘chiagne‘ può continuare pure a farlo, senza però disturbare più chi ha scelto di ridere.

Mi dispiace, non mi vedrete con le lacrime agli occhi, cospargermi il capo di cenere, fare la vittima o puntare il dito. Non ho bisogno di preparare il terreno di un vittimismo infantile per trovare compiacimento nelle persone che in teoria dovrebbero sapere chi sono. Chi mi conosce, sa. Senza nemmeno troppi sforzi dietro parole vane. Le lacrime me le hanno asciugate e le ho lavate via da sola, senza necessariamente farlo sapere al mondo. Se oggi regalo sorrisi, sorrisi sinceri, sono semplicemente il frutto di tanta sofferenza che mi ha indotto a migliorarmi, ad evitare situazioni che non mi andavano più giù, e ci sto lavorando ancora. Diffidate dalle apparenze, i social vogliono mostrare solo ciò che si sceglie di mettere sul bancone del mercato al mattino. A tutto il lavoro del contadino, del pescatore, del venditore ambulante che si sveglia nel cuore della notte per guadagnarsi il pane onestamente, nessuno ci pensa.

I beati lasciamoli nell’alto dei cieli, pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare noi per non risultare pedanti, per non fingere ciò che non siamo più. In caso contrario, ho anche io una piccola lagna da fare: beati voi che siete ignoranti e non capite…

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Tutta fuffa. Ovvero, l’arte di sapersi vendere.

Avete mai visto il film ‘I love shopping‘? La protagonista, Rebecca Bloomwood, oltre ad una smaniosa propensione all’acquisto compulsivo, abbellisce (per così dire) il proprio curriculum, adornandolo di capacità – o, se vi piace di più, di skill – che non le appartengono veramente, come ad esempio la conoscenza del finlandese.

Ho subito pensato a lei ieri sera, quando mi sono ritrovata ad un workshop di danza capitanato nientepopodimenochè dalla ballerina di Beyoncé. Diciamo dance captain, fa più figo e si capisce che è la ballerina principale, che siede alla destra della Madre. Badate bene, la mia presenza lì non era assolutamente casuale. Oltre alla passione per il ballo, non avrei potuto assolutamente mancare ad un appuntamento del genere, ad un solo grado di separazione dal mio prototipo di donna perfetta, di ispirazione sotto molteplici punti di vista. Ma questa è un’altra storia.

Ritorniamo a ieri sera, a quando arrivo in studio, e nella sala ci sono queste gran gnoccolone che un’ora prima del corso iniziano a riscaldarsi, fare stretching, accennare qualche passo di danza così, random, tanto per far vedere quanto sono brave e preparate. E belle. ‘Ste stronze. Ho iniziato subito a sentirmi inadeguata, a pensare che la mia presenza non aveva molto senso in mezzo a persone che si allenano, seguono corsi mirati durante tutto l’anno e hanno una certa confidenza di sé stesse e del proprio corpo. Io? Io ero seduta a terra, a gambe incrociate, schiena ricurva, a cantare sottovoce tutte le canzoni che passavano di Beyoncé. La ragazza è intelligente ma non si applica.

Quando è poi arrivata Ashley, la ballerina, ho dimenticato tutto, l’adrenalina era troppa, così come la felicità, un momento di felicità. E così, proprio come tutti gli altri, inizio ad imparare la coreografia, non facile aggiungerei. Ma liberatoria. Ballare mi fa sentire libera da tutto.

Quando poi ci siamo divisi in gruppi, ho iniziato ad accorgermi di come si muovevano tutti gli altri. Alcuni erano veramente bravi, con una padronanza di passi ed espressioni facciali pazzesche. Altri, come il tizio che mi ha scavalcata per posizionarsi davanti a me, in prima fila, ha iniziato pian piano ad indietreggiare mano mano che i passi diventavano sempre più complessi, nonostante ci avesse impiegato un’eternità per riscaldare gambe e schiena. Un ballerino, insomma. Che non ha capito un cazzo. E non era il solo.

Tutto ciò mi ha portata ad una conclusione, che in realtà avevo maturato anche con altre esperienze. Viviamo in un momento in cui non contano tanto le capacità di una persona, quanto piuttosto l’abilità di vendersi. Se sai venderti bene, non importa più a nessuno se sei bravo oppure no, se quella dote che dici di avere è effettivamente nel tuo portfolio o stai raccontando un mucchio di cazzate. Insomma, la facciata. L’apparire. Potrei stare qui a scrivere fino a domani su quanto viviamo nell’era dell’immediatezza, dove nessuno ha più voglia di scoprire una persona, che carattere ha e come si rapporta nei confronti di una determinata situazione. E’ tutto immediato, e se tu non vuoi darmi qualcosa hic et nunc, ci sarà sicuramente il prossimo che provvederà. Sapete di cosa sto parlando. Inutile disquisire.

E quindi, di tutti quei personaggi di ieri sera, una buona fetta rientrava nell’effetto cheerleader: in gruppo, sono tutti fighi, ma presi singolarmente, si iniziano a recepire tutti i difetti di questo mondo. Eppure, nonostante ciò, sanno vendersi bene. Potrebbero raccontarvi che loro parlano il finlandese, come Rebecca, e lasciarvelo credere. Voi, dall’altro lato, potreste sentirvi leggermente inadeguati, perché il finlandese proprio non lo capite. Ma sapete cosa? Potrebbe anche succedere che, nel sentir parlare uno scandinavo, alla fine sarete i primi a capirne i contenuti, mentre i finti saccenti arrancano con bocca mezza aperta, non sapendo che pesci prendere. In soldoni, e questo vale anche per me, non sottovalutate le vostre capacità. La maggior parte delle volte la gente sposta solo aria, vende fuffa a go go e poi nelle situazioni concrete durano come un gatto in tangenziale. Abbiate sempre fiducia nelle vostre capacità, e non lasciatevi sminuire da niente e nessuno.

E tutto sommato, ieri sera mi sono difesa bene.

Jessica

Pubblicato in: èsololavita, Terra mia, Wanderlust

L’estate sta finendo…

Si avvisano i signori viaggiatori che, a causa di un guasto tecnico, il treno viaggerà con un’ora di ritardo’

Iamm che cazz’ ‘Ma c sang ra maronn!’ ‘Cazzo, perdo la coincidenza!’

In questa atmosfera bucolica mi accingo a ritornare a Milano, tra cani che abbaiano come bestie di Satana, bambini che frignano, per non parlare della positività e gioia di vivere del mio vicino di posto.

Si concludono così le mie ferie. All’inizio pensavo di spendere troppi giorni giù, a casa, ma come ho scoperto ben presto, non sono mai abbastanza.

Io non so se saprei lasciar scorrere sulla tastiera le parole giuste per descrivere le emozioni provate, so solo che quando ho messo piede a Napoli centrale, ho pensato: ‘e adesso? Cosa faccio?’

Non ho mai avuto bisogno di darmi una risposta, perché mai avrei pensato che così tante persone mi stessero aspettando, in particolare la mia famiglia. Mai avrei pensato di essere in grado di mettere in pratica la filosofia partenopea, e di prendere le cose così come sarebbero venute.

In quest’ottica, ho fatto, visto, sentito e mangiato (soprattutto) più cose di quanto avrei mai sperimentato se fossi arrivata da Milano con un piano di battaglia scandito al minuto. E mi è piaciuto.

Non sono mancate parentesi spiacevoli, dei bolidi che mi sono ritrovata inaspettatamente dritto in faccia, da cui non sono stata in grado subito di ripararmi. Ma sapete cosa? Sarò un po’ strana, un po’ mistica, ma sono andata a vedere l’alba, ho ascoltato in silenzio le onde del mare, ed è come se avessi fatto pace con me, con i miei demoni, e avessi cacciato via l’ultima fetta del mostro che mi tormentava. E sono stata felice.

Ho accolto i sorrisi, e ne ho regalati tanti, sinceri, a chi lo meritava. Ho capito sempre più che devo evitare situazioni e persone che seguono un altro mantra partenopeo: ‘chi chiagn fott a chi ride’. Mi sono un po’ stufata di queste persone che di fronte a delle (passatemelo) cazzate non fanno altro che lamentarsi, e tu continui a sorridere nonostante il male, nonostante tutto. Ma questa è un’altra storia, magari la racconterò poi.

Nel frattempo, al marasma del treno, si è aggiunta una persona che russa pesantemente.

Torno a Milano, con la solita promessa di tornare a casa più spesso, ma già so che sarò inghiottita dalla metropoli e me ne dimenticherò. Quello che non posso dimenticare però , sono le promesse fatte, e non sono delle semplici parole dette tanto per. Sono dei nodi al cuore difficili da sciogliere, fatti con persone che, consce o meno, mi hanno salvata ogni giorno e continuano a farlo costantemente. E poi, se dei bambini ti dicono che sei dolce, che ti cercano appena si svegliano, che dicono che sei bella senza trucco e ti chiamano zia anche se ti hanno conosciuta cinque minuti prima, come fai a non scioglierti come neve al sole?

Mi arriva una nota audio. È il mio cuginetto, tre anni, che mi dice che sentirà la mia mancanza, e se ho cercato di tenere la corazza nel salutare mia cugina che ha fatto una corsa stamattina prima di andare a lavoro e con la quale ho condiviso questa vacanza, nel salutare la nonna, nel vedere il profilo delle mie montagne preferite andar via, non ce la faccio e le mie difese crollano.

Ma so già che c’è altrettanta gente che mi sta aspettando a Milano, e allora sorrido perché qualcosa di buono, se tutte queste persone mi vogliono bene, devo pur aver fatto.

Scrivi un libro‘ mi ha detto più di una persona. Ci sto pensando da un po’.

Jessica