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La mia persona

[…] Il ragazzo che aveva perso il rospo era tornato, ma questa volta con lui c’era una ragazzina che indossava la sua uniforme di Hogwarts nuova fiammante.

“Qualcuno ha visto un rospo? Neville ha perso il suo” disse. Aveva un tono autoritario, folti capelli bruni e i denti davanti piuttosto grandi. […]

Viene così introdotta Hermione Granger nel primissimo libro della saga di Harry Potter, il maghetto più famoso al mondo nonché collana di libri a me molto cara.

L’ingresso in scena di Hermione è brusco, interrompe una conversazione tra Ron ed Harry e incurante si intrufola nelle loro vite, sebbene gli esordi non facciano ben sperare in una solida storia di amicizia e amore.

L’incontro con la mia persona, la mia Hermione, è avvenuto quasi venti anni fa. Era il 14 o il 15 settembre 2001, vivevo per la prima volta sulla mia pelle una storia fatta di terrorismo che non si fermava solo sulle pagine che leggevo a scuola, ma facevano parte del quotidiano e avrebbero influenzato gli anni successivi e la storia moderna. In quel periodo io combattevo un’altra battaglia, che ancora oggi mi porta non pochi problemi: la mia timidezza. Mi apprestavo ad iniziare un nuovo ciclo scolastico, quello delle scuole medie, dove non avrei incontrato le mie amiche delle elementari e avrei dovuto incominciare tutto daccapo. E se non fossi piaciuta a nessuno? Se non avessi mai intrecciato nuovi rapporti di amicizia? Questi pensieri mi angosciavano non poco allora. Per fortuna ora riesco a gestirlo molto meglio, ma la sensazione di disagio che mi accompagna quando devo conoscere qualcuno non mi ha ancora abbandonata.

Tornando a noi e a quel primo giorno di scuola, ricordo che quella mattina ero salita sull’autobus che raccoglieva i bambini della zona per lasciarli davanti all’istituto. Si ferma, sale un’altra manciata di bimbi e vedo salire la mia Hermione: capelli castani e arruffati, zaino in spalla e sguardo curioso. Prende posto proprio dietro di me. Eppure quella bambina aveva un’aria familiare, ma non riuscivo proprio a ricordare dove l’avessi già vista. Ci pensa lei a rinfrescarmi la memoria. La sua testa tutta capelli fa capolino tra le spalliere dei sedili e mi saluta: “Per caso tu vieni in Corderia? Alla spiaggia?

Ecco dove l’avevo vista, tutte le estati al mare, al bar a prendere il gelato, nei balli di gruppo con gli animatori. Era proprio lei!

Annuisco e accenno un sorriso, cercando di controllare il rossore che sento salire su tutto il volto.

“Io sono Katia” mi dice. “Ciao, io mi chiamo Jessica.”

A ben pensarci, venti anni sono tanti, ne ho conosciute di persone, molte delle quali sono state solo di passaggio nella mia vita. Ma nessun incontro è ancora tanto vivido nella mia memoria quanto quello. Katia mi ha – letteralmente e non – accompagnata per mano per tutti questi anni, nonostante la vita si prenda gioco di noi in modi che mai avremmo potuto ritenere possibili. Capisco quando vuole cercare di distrarmi mandandomi messaggi decisamente demenziali o cerca di occupare il mio tempo con altri pensieri che non siano i miei autodistruttivi. La capisco e lascio fare, perché una delle poche certezze della mia vita è che so di aver sempre bisogno di lei in qualche modo. L’anno scorso, dopo che non ci siamo viste per un po’ di tempo, si è trovata materialmente nelle mie giornate e non avrei potuto chiedere di persona migliore che mi tendesse la mano e mi risollevasse.

Dopo tre anni di scuole medie e cinque di liceo dove ancora mi rinfaccia i lividi sul braccio sinistro perché era il mio modo per attirare la sua attenzione, l’università ci ha viste prendere strade diverse. E poi il lavoro, le trasferte, Milano, Roma, Castellammare. Noi ci siamo sempre state, per i primi amori, le prime delusioni, le prime sbronze, le discussioni in famiglia o con amici, i primi viaggi insieme, Parigi, Stresa, Valencia, i litigi tra noi che ci hanno portato periodi di stallo, per poi ritrovarci di nuovo e più unite di prima.

Per me è sempre stata la mia Grande Puffo, come spesso l’ho chiamata nel corso di questi anni, quando dispensava perle di saggezza decisamente troppo profonde per la sua età… e continua a farlo! Ci sono stata quando pensava di essere persa e non vedeva la luce in fondo al tunnel, ma sono sicura che alla fine sia sbocciata grazie al lavoro che ha compiuto su se stessa. Ora è una donna autonoma, indipendente e inalterata nella sua bellezza, anche quando ha scelto il compagno della sua vita, perché è stato un valore aggiunto, e non un elenco di privazioni. La guardo e so che ho ancora molto da imparare da lei.

Katia è il giallo, il suo colore preferito, il colore dei girasoli, il colore del sole, della vita. Questa piccola lettera d’amore è per lei, per augurarle un buon compleanno e per ringraziarla in qualche modo per tutto quello che mi dice, ma soprattutto per tutti i silenzi pregni di significato.

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Katia è la mia Hermione. E si sa, senza Hermione, Harry sarebbe morto nel primo libro.

Jessica

PS: in questi giorni ricorre anche il primo compleanno di questo blog. Grazie a tutti coloro che si fermano a leggere, a leggermi, siete preziosi per me.

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L’amore ai tempi del covid

C’era una volta una principessa che viveva confinata in un bilocale, senza un balconcino o un piccolo terrazzo che potesse consentirle di leggere un buon libro o ascoltare della musica lasciandosi baciare dai raggi del sole. Passava le mattinate appollaiata sul divano, con la fronte appoggiata al vetro della finestra che durante il giorno filtrava i raggi primaverili in casa. In realtà non era una principessa, o meglio lo era solo perché i capelli color del miele avevano raggiunto quella lunghezza tale per cui avrebbe potuto affacciarsi e sciogliere le trecce .

Ogni giorno quella giovane fanciulla viveva nell’attesa che un aitante Conte, di nome, riferisse alla popolazione quello che tutti aspettavano di sentirsi dire: ‘non ci sono più contagi, aprite ufficialmente le gabbie‘. La fanciulla attendeva quel momento per poter finalmente abbracciare e vedere quelle persone che per lei significano molto più di un cugino di secondo grado di cui non conosce nemmeno l’esistenza. Senza quelle persone da lei amate, non avrebbe mai imparato l’importanza di avere degli affetti stabili nella sua vita.

Nel frattempo, sola tra le mura del castello… ehm volevo dire palazzo… ehm volevo dire casa, sospirava piena di dubbi ed incertezze in merito al futuro, alle conseguenze psicologiche e materiali che sarebbero inevitabilmente scaturite dalla pandemia e a tutti i meravigliosi progetti che aveva riservato per l’inizio del nuovo decennio. Questi pensieri la tormentavano notte e dì, interrotti solo dalle chiamate virtuali e dai messaggi ricevuti da quelle persone che poteva definire casa.

E così, lentamente, scivolarono marzo e aprile, fino ad arrivare al 4 maggio, giornata ufficiale per l’inizio della fase 2, ovvero dove pian piano la fanciulla avrebbe potuto concedersi qualche libertà in più rispetto alla mera reclusione. E fu così che, di tutto punto, lunedì mattina, si recò al parco per concedersi una breve corsetta all’aria aperta. Ma c’era un pensiero che la tormentava: negli ultimi due mesi nel suo vicinato aveva preso forma un appuntamento quotidiano, dove un ragazzo di cui conosceva solo il nome e nemmeno il volto, puntualmente alle 18 diffondeva della musica che esortava tutto il vicinato ad affacciarsi al balcone e a partecipare a quella piccola comunità che ogni volta si riuniva.

La principessa voleva a tutti i costi conoscere l’aitante giovane per ringraziarlo della compagnia di cui aveva goduto nell’ultimo periodo. Fu così che, di ritorno dalla sessione di jogging, sbirciò sul citofono del palazzo per leggere, ahimé, una lista di soli cognomi. Come avrebbe mai potuto rintracciare il misterioso ragazzo? Mentre presa dallo sconforto legge gli ultimi cognomi dell’elenco, trova anche un’iniziale, D. La fanciulla sa che non è affatto un indizio sufficiente, ma ciò non la distoglie dal contattare la sua amica più fidata con un curriculum lodevole in fatto di stalkeraggi, per fornirle le iniziali incriminate.

Presa dalle faccende quotidiane e dimentica dell’episodio, la principessa nota che il display del cellulare si illumina per ricevere la notifica della stalker che, per via di qualche sortilegio, ha effettivamente trovato il giovane rampante! La fanciulla è sinceramente intimorita dalle doti dell’amica, ma al contempo estremamente grata per l’ignobile missione compiuta. In questo modo, apprende che il ragazzo è per metà italiano e per metà brasiliano, e già questo dovrebbe essere parte integrante di qualsiasi descrizione che si rispetti. Ma non finisce qui! Il suo profilo social è tempestato di quadri da lui stesso realizzati… un artista! Un artista italo-brasiliano! I voli pindarici della giovane reclusa avevano già raggiunto l’altezza della stratosfera, così decide di armarsi di cellulare e lasciargli un messaggio… non dimentichiamoci che lo scopo unico della ricerca consisteva nel ringraziare una persona che si era occupato in un certo senso del suo vicinato… quanta magnanimità!

Inviato! La fanciulla cerca di non dare eccessivamente peso alle sue fantasie, turbate da alcuni dubbi difficili da sciogliere ancora: sarà impegnato? E’ attratto dalle ragazze o dai ragazzi? Meglio non pensarci troppo e continuare con la propria quotidianità. Fino a quando il giovane risponde, dicendo di essere contento e ringrazia a sua volta per il messaggio. Fine. Due parole in croce? Tutto qui? La sventurata, delusa dall’italo-brasiliano, decide di archiviare l’accaduto e di prenderla con molta filosofia, realizzando che, anche in periodo di covid, l’amore, immaginato o no, ha la durata di un rutto.

FINE.

Jessica

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Manuale d’umore

Caro diario,

ti scrivo dal giorno x di quarantena, ormai ho smesso di contarli da un bel po’, e nel tentativo di dimenticarmi quanto tempo sia già trascorso, ci siamo ritrovati ad aprile. Non che la sua venuta sia passata inosservata, ci portiamo sulle spalle il peso di ogni singola ora trascorsa, dove i weekend si sono accavallati velocemente al resto dei giorni della settimana in maniera convulsa, incapaci di conferire loro un’importanza diversa rispetto ad un lunedì qualsiasi.

Diciamo che ogni giorno trascorso ci fa ben sperare di aver passato un’ulteriore settimana che possa portarci quanto prima ad una parvenza di normalità. Tuttavia, caro diario, ho capito ben presto che non era proprio il caso di affidarsi al lento trascorrere del tempo per poter mantenere vivi quei pochi neuroni rimasti. Sai cosa ho fatto? Ho ripreso in mano delle passioni che avevo rinchiuso – ahimè – nel cassetto? Perché, mi chiedi? Beh, che domande… per la scusa più vecchia al mondo… non avevo tempo.

E sai qual è l’ironia della sorte ora? Che proprio il tempo, non ci manca affatto. Quindi, se non facciamo qualcosa, è semplicemente per mancanza di voglia, di passione, insomma non possiamo più arrancare scuse se non incolpare la nostra infinita pigrizia. Un po’ come quando sento che molte persone ora si stanno rendendo conto di chi è veramente amico, di chi si fa sentire e chi no. Ecco, forse questo periodo di reclusione forzata può soltanto darci la prova del nove, ma in fondo abbiamo sempre saputo su chi poter fare affidamento e chi no, e la quarantena non ha fatto altro che dimostrarlo.

Posso confessarti una cosa, diario? Provo una noia profonda per i social. Non fraintendermi, li utilizzo eccome, ma non più con la stessa frequenza di prima. Mi sono resa conto che mi stanno annoiando velocemente, per questo cerco di ridurne l’utilizzo all’osso e non può farmi altro che bene.

Da aspirante futura moglie di Alberto Angela, ho iniziato piuttosto a dedicarmi ai documentari. Sì, lo so, possono sembrare noiosi. In realtà dipende sempre dall’argomento e dal modo in cui vengono raccontati i fatti. Per esempio, lo sapevi che i Windsor non si sono sempre chiamati così, ma il nonno dell’attuale regina Elisabetta ha modificato il nome della casata, poiché in realtà loro erano di origine tedesca? Non si finisce mai di imparare.

Ma ciò che mi ha colpita di più, è stata la docuserie ‘Il nostro pianeta’ di Netflix, che ho già consigliato a tutto lo scibile immaginabile. Credo che, oltre alla bellezza delle riprese e alla campagna di sensibilizzazione nei confronti della natura da preservare, potremmo imparare un bel po’ dai comportamenti del mondo animale. Sapevi che esiste una categoria di volatili che si chiama ‘uccello paradiso’? In sostanza, questi uccelli, per attirare le attenzioni della femmina, puliscono tutta la loro area di competenza, fanno l’inchino e poi una danza che ha un che di psichedelico, ma solo se la femmina resta affascinata da questo rituale cede alle lusinghe. Insomma, noi della specie umana non ci aspetteremmo mai una cosa del genere, ma che cazz non ci meritiamo nemmeno di dover dividere l’euro per un caffè! O, peggio ancora, doversi sentir chiedere ‘istintiva o razionale?’ per sapere fino a che punto ci si possa spingere ad un primo appuntamento…

Come dice sempre la mia amica, il problema non è il virus, eravamo messi male pure prima. Per questo motivo, meglio continuare a coltivare passioni solo nostre nelle quattro mura domestiche. La cucina, la musica, la pittura, i puzzle, la scrittura, la lettura, la fotografia, sono solo alcune delle attività creative che vedo fare e che faccio. Un’altra cosa a cui mi piace dedicarmi sono i pensieri felici, sì insomma, vedere il bicchiere mezzo pieno. Ad esempio, ricordarsi di quella volta in cui hai pianto dal ridere, quel video che immortala un momento particolarmente significativo, o tutti i viaggi che porti nel cuore, con la speranza di poter collezionare presto ulteriori ricordi. D’altro canto, perché non iniziare a fantasticare sulle prossime mete da esplorare? Sai, diario, vorrei buttar giù qualche spunto per una lista di cose da fare non appena finisce tutto questo. Cosa c’è in cima? Vorrei tanto poter vedere le stelle. Ma non quel paio che si intravede nelle sere limpide in città. Vorrei poter andare in quei posti talmente bui che le stelle sono visibili a migliaia. Ah e il gelato, ho bisogno del gelato al caramello salato.

Caro diario, i momenti bui non mancano. In alcuni giorni la solitudine è un manto nero che ti si incolla addosso, difficile da levare, e l’umore può cambiare nel giro di pochissime ore per un messaggio, per un’unghia rotta. Ma cerchiamo di contenere anche quelli, di ridimensionarli cercando distrazioni piacevoli. Maledetti ormoni!

A volte mi chiedo quanto inficerà sui rapporti questo periodo di reclusione, se limiteremo di nostra spontanea volontà i contatti con il mondo esterno e con le persone, oppure se ci sia un effetto del tutto opposto. In ogni caso, mi auguro davvero che questo periodo possa servire come spunto di riflessione per ciascuno di noi. In primis con noi stessi, e poi con tutti gli altri. Mi auguro davvero che dopo tutto ciò possa esserci un ridimensionamento e un ritorno ai valori genuini, che poi sono sempre quelli che fanno la differenza. Spero che non ci siano ripercussioni significative sulla psiche di ognuno di noi… ma del resto io mi sto indirizzando ad un diario che non esiste, di cosa vogliamo parlare?

Jessica

Una piacevole distrazione è la maratona di classici Disney a cui mi sto dedicando. Il risultato? Inizio a provare una certa simpatia, nonché empatia per molti dei ‘cattivi‘ dei cartoni animati. Come quando hai pensieri sinistri nei confronti del bambino del vicinato che suona volutamente male il flauto… maledetto!

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‘Ci vediamo domani’

Questa è la mia quarta settimana di quarantena in casa. La quarta settimana di smart working. La quarta settimana in cui vedo i miei genitori e mio fratello tramite telefono. La quarta settimana di call dove saluto i miei colleghi e ogni volta veniamo informati su quanto il lavoro si stia riducendo, di quanto le sedie tremano sotto il peso delle nostre responsabilità. La quarta settimana di paura. Ma non per me. La paura per i miei cari, la paura di ricevere quella data chiamata e sapere che qualcuno l’ha beccato per davvero, questo maledetto virus.

La quarta settimana in cui rivoluziono dispense dove ho trovato pasta scaduta nel 2017 (scusate), mobili da cui butto rossetti vecchi di almeno 5 anni. La quarta settimana in cui cerco di non avere una routine fissa, ma di appassionarmi ogni giorno a qualcosa, di interessarmi a qualche argomento, a qualche tutorial, a qualche nuova ricetta, mentre giro la clessidra che ho sulla tavola e aspetto. Ma non sono l’unica. Siamo tutti in attesa che passi. Stiamo aspettando tutti che i numeri dei contagi e dei decessi calino per avere uno spiraglio di speranza: la speranza di tornare quanto prima alla normalità. Di salire al mattino sulla metro gremita di persone che si accalcano per accaparrarsi un posto a sedere, con gli aliti pesanti di chi non ha ancora fatto colazione, o ha appena finito di fumare una sigaretta cinque secondi prima. Mi mancano anche tutti quelli che si attaccavano al telefono che proprio tu non capivi come facessero a parlare di primo mattino, a quei decibel soprattutto.

Mi manca la fermata che mi consentiva di arrivare al nuovo ufficio: ‘Gioia‘. Buffo, come un nome possa cambiare tutta la prospettiva di una giornata, eppure era così. Ora il palazzo della regione Lombardia lo guardo solo in tv, quando i giornalisti collegati da lì forniscono il bollettino di guerra. Io, invece, ci passavo tutte le mattine, con le cuffie nelle orecchie, mentre andavo a lavoro. Un lavoro che di volta in volta diventa sempre più incerto, più insicuro, che sicuramente avrà ripercussioni nel breve e lungo periodo. Ma non sono sola e non è mia intenzione lamentarmi: siamo tutti sulla stessa barca.

Inevitabilmente abbiamo dovuto ridimensionarci in questi ultimi giorni, abbiamo capito che le nostre manie da megalomani, da persone che vogliono sempre più, sono nulla in confronto ad un virus, ad una cosa microscopica ed invisibile che può farci traballare da un momento all’altro. Forse è giusto che sia così, che siano sempre le piccole cose a muoverci, a farci apprezzare ciò che già abbiamo e ciò che soprattutto ci sta aspettando. Che lo si voglia o no, una volta usciti da questo periodo non saremo più le stesse persone che hanno chiuso la porta a chiave l’ultima volta. E sapete perché? Abbiamo dovuto fare i conti con qualcuno da cui siamo sempre sfuggiti: noi stessi.

Il lavoro, la palestra, l’aperitivo, la cena, il cinema con gli amici, col fidanzato, con i genitori, insomma abbiamo sempre riempito la nostra vita pur di non fermarci un attimo per dare una sbirciatina nello specchio e vedere chi ci risponde dall’altra parte. Molte persone lo fanno di propria volontà nel momento in cui si sentono pronti. Ma ora, nessuno era preparato a questo, ed è sempre ciò che la vita ti vomita addosso il motivo per il quale dobbiamo imparare a reagire ad ogni avversità. La quarantena non è facile per nessuno, né per chi si vede costretto a dover gestire 24h i bambini, il marito, i compagni, i coinquilini, né per chi, come me, vive da solo, e tutta questa solitudine non l’aveva chiesta.

Siamo tutti sulla stessa barca perché ora come ora è difficile rispondere alla domanda ‘come stai?’, personalmente mi mette in difficoltà, perché dovrei scrivere un monologo al giorno per poter dar voce alla mia testa – voce relativamente rauca, dato lo scarso utilizzo – . Ma poi ci penso per un attimo, e rispondo che sono in salute, e che questo al momento è tutto ciò che conta, perché so che ci sono persone che perdono i cari senza poterli nemmeno salutare un’ultima volta data la quarantena e il rischio di contagio, che ci sono persone che non erano pronte ad affrontarsi e ora ne pagano le amare conseguenze, che ci sono persone che hanno perso il lavoro, che non si sentono tutelati dalle istituzioni a differenza di altri paesi. Sono in salute – ehi, tocco ferro! – e va bene così.

Forse è davvero da questo che bisognerebbe ripartire, dalle piccole cose, apprezzarle, volerle bene, anche se si tratta di una stupida routine che fino al mese scorso odiavamo, ma che ora invece ci manca, ci manca tanto. La mia piccola routine di questo periodo, se così si può chiamare, è Douglas, un ragazzo che alle 18 in punto, ogni giorno, ci fa ascoltare 3/4 canzoni, alcune anche su richiesta, per poi ringraziare tutti e concludere con ‘ci vediamo domani!‘. Tra tutto questo continuo clima ansiogeno, darsi appuntamento per il giorno successivo è una delle piccole gioie di queste giornate così assurde, aspettando di poter riabbracciare chi, in questo periodo, ci manca come l’aria.

Nel frattempo, restate a casa, davvero.

Jessica

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Quarantena

Nei giorni in cui mi chiedo da quando e per quale motivo Codogno sia diventato il centro del mondo, tutta l’Italia ne subisce le conseguenze. Anche Milano. E di riflesso, anche io.

Dopo una prima fase in cui ho seguito costantemente gli aggiornamenti attraverso notiziari e testate giornalistiche, mi sono resa conto che più che riportare fatti di cronaca, si continuava ad assistere ad un vera e propria campagna di terrorismo psicologico. A quanto pare, la suddetta campagna ha sortito gli effetti auspicati, poiché mai avrei pensato di vivere un momento storico del genere. Ricordo nelle ultime settimane quando parlavo con i miei amici e, tra il serio e il faceto, facevamo l’elenco di tutti i disastri che si sono susseguiti dal 1 gennaio… eppure mi piacciono gli anni pari, ma non fanno altro che ripetere ‘anno bisesto, anno funesto’.

Quello che i giornali dicono è che le borse cercano di reagire come meglio possono, ma che tuttavia ciò si ripercuoterà nell’economia a lungo termine, almeno per i prossimi mesi. I giornali spiegano come lavare le mani, come starnutire e tossire, perché a quanto pare questo non era chiaro a tutti già dall’alba dei tempi, e ne sono stata molto spesso testimone inconsapevole, specie sui mezzi pubblici. I giornali dicono che i supermercati vengono svuotati in maniera convulsa, che non si trovano più in giro mascherine né gel disinfettanti. I giornali ti spiattellano in faccia quanto sia cattivo l’uomo, che crede di potersi sentire legittimato a perpetrare atti di razzismo e di egoismo davanti a chiunque incroci il proprio cammino. I giornali raccomandano di evitare luoghi affollati, che le palestre, i cinema e altri luoghi di aggregazione sono chiusi a scopo precauzionale. I giornali dicono che, a discapito di quanto si credesse, a Milano si riesce a lavorare anche da casa, che lo smart working funziona, e pure bene.

Quello che i giornali non dicono, però, è che lo smart working, quando non sei tu a sceglierlo, può risultare pesante. Esattamente da un mese, anche i nostri capi ci hanno concesso di lavorare da casa, prevedendo turni razionali, da usare con parsimonia e responsabilità. E funzionava, funzionava davvero bene. Vuoi mettere che la mattina posticipi la sveglia di un’ora, volendo potresti anche lavorare in pigiama, a letto, con la tv accesa o la tua musica preferita in sottofondo, senza che qualcuno ti dia fastidio o ti faccia perdere la concentrazione? “Figata!”. Un conto, però, è poter scegliere ciò che vuoi fare. Altra cosa è quando si è obbligati e ci viene imposto dall’esterno, senza poter porre obiezione alcuna. In momenti del genere, mi rendo conto che siamo costretti a fare i conti con la nostra arcinemica: la solitudine.

Per quanto Milano possa essere una città poliedrica, piena di eventi, piena di persone, che fanno business, che fanno sistema, credo che sia una delle città dove la solitudine può uccidere peggio di un virus. Milano è uno dei comuni più densamente popolati, sogno di tantissimi giovani che non vedono l’ora di fuggire dal paesello e crearsi un nome, una posizione, dar voce al proprio modo di essere senza accusare l’ombra del giudizio. E’ vero, a Milano puoi andare in giro vestito come ti pare, puoi anche urlare all’improvviso per strada senza che nessuno ci dia troppo peso, perché scene del genere possono essere all’ordine del giorno se la città metropolitana ti inghiotte. Puoi scoppiare in lacrime in metro, senza che nessuno si avvicini per un po’ di conforto, o semplicemente per discrezione. Insomma, ci sono mille motivi per amare Milano, altrettanti per odiarla quando accanto a te si siede la tua nemesi. La solitudine è una componente della mia vita che ultimamente ho richiesto spesso, per staccarmi dalle troppe persone, dai loro caratteri che sono troppo, e avevo bisogno di lei a fine giornata per ricercare quel rifugio personale, solo mio.

In qualche post fa avevo scritto che ho imparato la differenza tra lo stare soli e il saperci stare, e continuo ad esserne convinta. Anzi, aggiungo anche che il saper stare da soli non comporta necessariamente il VOLER stare sempre da soli. Bisogna imparare a stare prima con noi stessi, capire le nostre necessità, le nostre esigenze, per sapere poi cosa chiedere alle altre persone, nelle giuste dosi. Mi rendo conto che non tutti sono in grado di porsi in questo tipo di analisi, altrimenti non si spiegherebbero tutte le persone che conosco che, pur di non restare con sé stessi, si rifugiano in continuazione tra le braccia di volti passeggeri e futili, che il giorno dopo vorrebbero solo fuori dal letto.

Torniamo sempre al discorso delle giuste quantità: il troppo stroppia e troppa solitudine, o troppa poca, comporta sempre il non saperci gestire, mettendo in costante discussione noi stessi. Ci chiediamo se siamo felici, cosa possiamo fare per migliorare il tiro, perché le congiunzioni astrali non sono dalla nostra parte e perché cazzo proprio in questa settimana di reclusione scegliamo di metterci a dieta, predisponendo la dispensa di sole cose salutari.

Non avrei mai creduto di dirlo, ma la Milano frenetica, un po’ mi manca. Scene del genere sono abituata a vederle solo ad agosto, ma allora è un’altra storia. Di solito sono anche io in procinto di partire per le mie vacanze, e mi godo gli ultimi giorni di una città deserta. Oggi, a fine febbraio, la situazione è troppo strana. In casa e in strada, il silenzio fa rumore, più di quando tutti si attaccano al clacson appena scatta il verde. E questo fa male. Fa male a Milano, ma soprattutto a chi ci abita e ha imparato a stare da solo. Lasciateci decidere quando restare da soli e in quali modalità. Lasciate che torniamo tutti alla normalità, con le dovute precauzioni. Lasciateci programmare viaggi, non guardateci male se torniamo giù e siamo sani come un pesce, ché già da soli ci poniamo un sacco di problemi – certo, salvo quegli irresponsabili che sono scappati dalle zone di quarantena -.

Perché è vero, questo virus si diffonde con molta facilità, ma una delle malattie più diffuse al mondo, oltre all’ignoranza, è la solitudine.

PS: quando un giorno tutta questa psicosi e il virus saranno solo un ricordo, vado a farmi un giro a Codogno, sembra che ci sia una movida esagerata!

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Carissima me…

Vi è mai capitato di pensare a come eravate fino a poco tempo fa, o in un passato non ancora troppo remoto? A me succede spesso; mi ritrovo a guardarmi allo specchio, e non posso non notare quanto i miei capelli siano tremendamente cresciuti nell’arco di poco tempo; quel brufolo sul mento, segno evidente di uno sgarro a base di Nutella, che ha deciso di lasciar tracce nonostante tu, quatta quatta, abbia affondato il cucchiano nel barattolo lontana da occhi indiscreti.

A volte mi capita di pensare a come ero, non solo esteticamente, ma soprattutto caratterialmente, senza dover vedere troppo più in là del mio naso. Mi capita di pensare alla Pupetta ingenua, indifesa, che credeva ancora nelle favole. O meglio, alle favole credo ancora. Che possano trovare terreno fertile al giorno d’oggi, direi di no. Decisamente no, e questa è un’altra storia.

A volte è come se potessi sentirla, la me di un anno fa. È come se in maniera prepotente mi dicesse di non dimenticarmi di lei, che lei ha bisogno di me, perché è convinta che quel mondo ovattato nel quale ancora abita sia il posto a lei predestinato, e ha bisogno di tutta la forza possibile per crederci, perché lo sta facendo da sola. Altre volte ancora, forse, sono io ad aver bisogno di lei, per ricordarmi di non essere sempre pessimista e cinica, e che di tanto in tanto, con pazienza e perseveranza, le cose belle possono ancora succedere.

Non si è svegliata, la piccola Pupetta, non ha ancora aperto gli occhi perché non vuole farlo, e non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Pensa che, come i bambini che giocano a nascondino, si possa celare tutto semplicemente chiudendo gli occhi, o spazzando la polvere sotto al tappeto. Lei non lo sa ancora, ma quella polvere ha creato una piccola duna, e chi ci passa su inciampa palesemente, facendolo notare. Ma lei nega, nega spudoratamente. La dolce Pupetta non vuole ancora vedere quello che ha sotto gli occhi e non mi sento di biasimarla, ognuno reagisce come può di fronte alle difficoltà. Piccola bambina mia, quante ore di sonno hai dormito stanotte? Sei arrivata al minimo sindacale, ché la privazione di sonno è una cosa seria, mica tanto da riderci su. Domani ti aspetta una nuova giornata di lavoro, la sveglia suonerà lo stesso, se ne frega.

Lasci già che le lacrime concilino il tuo sonno e le tue notti? Ti penso, Pupetta, perché se potessi, verrei lì ad abbracciarti, solo abbracciarti: sei inconsolabile e più di questo non riesci a sopportare. Oggi ho le parole giuste che avresti dovuto dire, ti avrei indicato le persone giuste da cui correre senza girovagare troppo a vuoto elemosinando tempo, o cercando conforto tra coloro che non hanno mai capito nulla, che di fronte ai tuoi scleri ridevano delle parole che tu utilizzavi, senza percepire la rabbia che usciva da ogni fibra del tuo corpo, e anzi gettandoti addosso le loro banalità in momenti davvero poco opportuni.

Guardaci adesso, Pupetta, guarda come siamo diventate grandi, decisamente autonome e un po’ più egoiste… questo avresti dovuto impararlo prima. Ma ricordati di non esagerare mai, che Narciso ci ha rimesso le penne a bearsi solo di sé stesso. Voglio dirti una cosa che sentirai molto spesso, ma a cui non darai credito all’inizio: sei più forte di quanto tu riesca ad immaginare. E ce la farai. Le altre parole scacciale via dalle tue orecchie e dai tuoi pensieri come si fa con le mosche particolarmente fastidiose.

Quanto alla Pupetta del futuro, ti dico di preservare la solarità, anche quando fanno di tutto pur di abbatterti. Segui i consigli di chi sa meglio di te, o crede di farlo, e non diventare troppo cinica, perché la strada la stai spianando per bene e a lungo andare potresti non riconoscere più chi ti passa sotto il naso. Spero che in un futuro non troppo lontano smetterai di dire che non senti più nulla, che non sai se sarai in grado di provare emozioni al di fuori della protezione della pluriball! Ci siamo sempre sottovalutate in ogni circostanza, pensando che gli altri siano migliori in ogni cosa. Non potremmo mai cambiare un’idea così radicata, ma dovresti imparare a volerti più bene e ricordarti che le persone sanno solo vendersi. Peccato che per loro non è previsto il reso come un pacco Amazon.

Hai sempre diviso il mondo in due categorie: chi sposta un sassolino e deve urlarlo al mondo intero, e chi sposta macigni in silenzio, e ti piace riconoscerti in quest’ultima immagine. Ma di tanto in tanto, alza la testa e raccogli i tuoi meriti, perché a questo mondo non ci vuole niente che passi qualcuno e ti ruba il lavoro. Noi lo sappiamo, sì, ma a volte non bisogna dare troppe cose per scontato e occorre sottolineare le banalità.

Mi piace la tua, la nostra voglia di imparare sempre, di esplorare campi nuovi e avventurarci in ambiti a noi ancora sconosciuti. Chissà che questa smania non ci porti finalmente da qualche parte. Che facciamo, ci diamo appuntamento all’anno prossimo e vediamo come sono andate le cose?

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

Blu

Quest’anno, o per meglio dire, al calare del 2019, un team di esperti ha decretato che il colore adatto a rappresentare l’inizio di un nuovo decennio sarà il pantone blu. Anzi, classic blue.

Non un blu con qualche strana sfumatura, di quelle che impiastricci in lavatrice con un altro colore fin troppo vivace. Classico, un blu classico. Un rassicurante, familiare blu. Ho amato questa scelta dal momento in cui è stata annunciata la notizia, che mi ha lasciata anche interdetta al solo pensiero che ci sia effettivamente un team che al mattino impronta le riunioni sui colori. Voglio dire, sfioriamo ogni giorno la minaccia di un conflitto mondiale, un’intera nazione va in fiamme, la gente muore di fame, di solitudine, di miseria, di gelosia. Eppure, loro ogni anno pubblicano il loro bel statement e rendono noto al resto del mondo la loro decisione. ‘Quest’anno abbiamo deciso così. Stop. Arrangiatevi.’

Ricordo che l’anno scorso era il viola a farla da protagonista, e a me non solo non piacciono gli anni dispari (non me ne vogliate, non so nemmeno io il perché, anche io faccio fatica a capirmi a volte), per di più ci aggiungiamo un bel viola…V.I.O.L.A. Proprio quel colore, lo stesso che se lo vedono gli attori a teatro scappano, dietro il quale si cela una lista infinita di luoghi comuni bene o male fondati: il viola porta sfiga. Punto. E se proprio dovessi pensare a come mi è andato il 2019, allora sì, il viola porta DECISAMENTE sfortuna.

Ma quest’anno c’è il blu, che è già un’altra storia. Anche se, a ben guardare, in inglese esiste un’espressione molto frequente, ovvero feeling blue. Letteralmente, sentirsi blu: un’idea associata ad un disagio, ad un malessere, una sorta di melanconia dietro la quale però non è possibile ricercare le cause scatenanti. Un po’ il male del secolo, oserei dire: avere tutto, avere tanto, anche lo stretto necessario, ma non sentirsi mai soddisfatti. Ma questo stato, più che ad un colore, sarebbe da imputare solo a noi stessi, a questa smaniosa voglia di avere di più, perché non è mai abbastanza. Perché siamo così stupidi da credere che quella tipa su instagram mangi davvero tutto quello che ha nel piatto senza poi riversarlo sui fianchi. Crediamo davvero a quel tal dei tali che è andato in vacanza nel posto che fa tendenza e che abbia i soldi necessari per essere all’altezza delle foto che pubblica, quando in realtà non sa nemmeno campare (l’arte del saper campare, un’arte davvero per pochi eletti) offrendo un caffè all’amico.

Quindi mi piace pensare al classic blue un po’ come un ritorno alle origini… magari dipendesse tutto da un colore! Potrà non piacere come scelta per i capi di abbigliamento, come tinta stramba per i capelli, come smalto. Ma il blu è il colore fermo del mare, del cielo in una giornata tremendamente limpida, di quelle che, anche a gennaio in città, il sole riesce ad accarezzarti il volto.

Il blu è un colore rassicurante, simbolo della stabilità, della fedeltà, della saggezza, dell’intelligenza, delle cose autentiche, come autentico è il mare quando vai a cercare le risposte. Come quando in inverno la tua amica ti scrive che sta venendo a prenderti e che ti porta al mare, sugli scogli. E lo contempli, e ci chiacchieri, lo consulti, aspettando segni, e sogni. E lui se ne sta lì, con quel colore cristallino e bello, bello assai. Come non amare il blu allora?

Buon anno blu a tutti!

Jessica

Pubblicato in: èsololavita

B-day!

Il mio compleanno coincide inevitabilmente con l’inizio di un nuovo calendario. Da brava capricornina meticolosa, per me ha perfettamente senso che il mio compleanno inauguri l’anno nuovo. Di solito carico il numero in più sulle mie spalle e sul mio calendario di infinite aspettative. Ma questa volta vorrei fermarmi un attimo a raccogliere alcune delle cose che ho imparato nell’anno dei miei 28. E quindi ecco un mini elenco che mi sento di condividere con voi.

Ho imparato a cucinare piatti nuovi.

Ho imparato otto accordi di chitarra, pian piano riuscirò a dare un senso anche al ritmo.

Ho imparato a cavarmela da sola.

Ho imparato a chiedere aiuto quando ne ho avuto bisogno, perché sempre da soli non si va molto lontano.

Ho imparato a ridurre l’uso dei social, perché condividere momenti nella vita reale è di gran lunga più prezioso del mostrarlo a tutti per ottenere spasmodici consensi.

Ho imparato a dormire completamente al buio e in un letto troppo grande.

Ho imparato a gestire le spese, ma su quello devo ancora lavorare un bel po’.

Ho imparato lo spirito di condivisione e di ospitalità, ma su quello sono napoletana, partivo con un minimo di vantaggio.

Ho imparato a scacciare gli insetti e a non fare scenate troppo melodrammatiche.

Ho imparato a contare fino a dieci, e in alcuni casi anche fino a venti. Non per tacere. Semplicemente, credo ci siano modi e modi per esprimere lo stesso concetto, e con un po’ di gentilezza in più si può ottenere un risultato migliore senza doversi necessariamente mangiare il fegato.

Ho imparato che l’autocritica è giusta, va bene. Ma non va bene accollarsi tutte le colpe.

Ho imparato a chiedere scusa, e che l’orgoglio non serve a nulla.

Ho imparato che il confronto non significa necessariamente dover litigare, sebbene non sia mai piacevole.

Ho imparato che l’inaspettato è molto più bello del pianificato, che a volte cambiare abitudini e strade ti porta ad esplorare le novità.

Ho imparato a pormi degli obiettivi, ricordandomi di non vivere però in virtù di questi, che le cose belle succedono quando andiamo a prenderci un caffè.

Ho imparato che, per quanto si guarisca, ogni tanto una ferita può tornare a far male. Ma poi passa. Di nuovo.

Ho imparato che al peggio non c’è mai fine.

Ho imparato a volermi bene, a non volere più le cose poiché costretta o per il compiacimento altrui. Forse ho guadagnato un paio di anni per questo.

Ho imparato a non guardarmi con gli occhi degli altri, e a non guardare gli altri. Se una cosa fa bene a me e non a questi fantomatici ‘altri’ che non sanno un cazzo, a cui ho mostrato solo la superficie e non l’iceberg nascosto, lo faccio e basta.

Ho imparato che stare soli è diverso dal saper stare soli, e la differenza non la fa solo il verbo, ma anche la predisposizione mentale.

Ho imparato che al mondo ci sono mille motivi per far ingrossare il fegato, ma ho scelto di restare in salute fregandomene un po’ in più.

Ho imparato che le soddisfazioni lavorative non devono necessariamente essere motivo di superbia o ripercussioni sulla propria vita. Il privato e il lavoro dovrebbero essere due concetti a sé stanti.

Ho imparato che la vita non va mai come vorresti, e che la maggior parte della vita stessa dipende da come decidiamo di affrontare le avversità.

Ho imparato a far mie tutte queste banalità apparenti. Perché le parole sono molto belle, ma la pratica, miei cari, è tutta un’altra cosa.

Entro nell’anno dei 29 con l’umiltà e la voglia di imparare ancora molto, di condividere e confrontarmi con le persone che ci saranno e vorranno esserci.

Buon compleanno a te, piccola grande Pupetta!

Jessica

Pubblicato in: èsololavita, Wanderlust

L’alba che ci aspetta

“In media, quest’anno hai camminato di più rispetto all’anno scorso.”

Mi sono imbattuta in questa frase, buttata così, statisticamente corretta, del mio telefono. Un giorno smanettavo tra alcune app e mi sono ritrovata tra le mani quella relativa al numero di passi, ai tragitti percorsi. Insomma, bene o male tutti abbiamo un servizio del genere su questi mostri tecnologici: ci fanno sapere quanti chilometri percorriamo, se abbiamo raggiunto l’obiettivo giornaliero e chi più ne ha più ne metta.

Quello che il mio telefono non sa, è il motivo per il quale ho avuto così tanto bisogno di camminare quest’anno. Sono uscita a camminare per prendere aria in faccia più di quanto voglia ammettere a me stessa. Mi ricordo che a volte realizzavo di essere per strada a percorrere vie a me familiari quando ero già ben lontana da casa. Altre volte correvo al parco. Mi rendo conto di essere stata davvero poco ferma. Un po’ come un animale in gabbia, come qualcuno che non trova pace. Ecco, proprio come qualcuno incapace di trovarsi in pace con sé stessi. A volte dovevo scappare da quella che definivo casa, perché non la sentivo mia, e ogni angolo mi riportava alla memoria attimi condivisi con qualcuno che aveva deciso di non esserci più. Solo che io non ero d’accordo allora. E sentivo il bisogno di scappare. Quindi si, caro telefono, ho camminato tanto quest’anno; ho incominciato col bisogno impellente di fuggire da me stessa, fino ad arrivare alla gioia di battere nuove strade, scoprire nuovi luoghi e infine ritrovarsi, sempre camminando.

Altri passi infatti sono stati frutto di passeggiate in compagnia, di giri interminabili di lavoro dove i piedi chiedevano pietà a fine giornata, ma la soddisfazione era troppa per potersi soffermare a pensarci. I miei passi mi hanno fatto andare incontro ad amici e familiari ogni volta che ne avevo bisogno, e ogni volta che loro avevano bisogno di me.

I miei passi mi hanno permesso di vagabondare in città sconosciute, sia per lavoro che per piacere: ho mangiato la paella a Valencia, raccolto soddisfazioni a Monaco, bevuto una birra sulla riva della spiaggia di Capri, ho bevuto il caffè più buono a Napoli, ho percorso le strade ripide di Lisbona, ho bevuto uno spritz a Verona con vista Arena, ho guidato su per una montagna a Palma, ho avuto un picco di colesterolo con un tagliere di salumi e formaggi a Parma, sono andata al cinema da sola a Norimberga e mi sono persa nell’incanto del Natale di Colmar.

Per gran parte di quest’anno ho sperato intensamente che il 2019 sparisse alla velocità della luce, come un fulmine che non tutti riescono a vedere, ma il cui tuono vibra nei timpani più del necessario. Come quelle situazioni vissute nell’arco di un paio di secondi che lasciano un amaro in bocca più di quanto si possa mai immaginare. Il mio primo post di questo blog parlava proprio della voglia di scrollarsi di dosso questa nefasta annata, di voler passare direttamente al 1 gennaio 2020. Era giugno. Ora, a dicembre inoltrato, ho capito che non sarebbe servito a nulla catapultarsi nell’anno successivo senza aver vissuto tutte le esperienze che il 2019 mi ha lasciato. Soprattutto quelle più spiacevoli. Non è un numero a fare la differenza, ma la somma del vissuto che continuiamo ogni giorno a portarci dietro, e dentro. Oggi saluto il 2019 come una vecchia amica saggia a cui essere profondamente grata, e mi rendo conto di poter parlare in tutta serenità proprio grazie a tutto ciò che è stato: credo che una bella differenza l’abbiano fatta anche le persone di cui mi sono circondata, ma devo riconoscere che sono stata io stessa a richiedere per me degli atti di coraggio che mai avrei pensato di dover affrontare. La cosa più bella ancora è stata poi superarli.

Ho portato con me due pensieri in particolare, entrambi raccolti ad aprile. In un momento in cui proprio no, non capivo per nulla a cosa mi sarebbero mai potute servire delle parole buttate lì su sfondo bianco. La prima viene direttamente da un messaggio inviatomi da mio padre. Mi trovavo ad una cena di lavoro con i miei responsabili, dove non sentivo altro che un chiacchiericcio indistinto, mentre la mia mente era ferma a casa, terrorizzata da quello che avrei (o non avrei) trovato una volta rientrata a Milano. Il messaggio è il seguente:

“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.” Kahlil Gibran

Nel secondo pensiero invece ci sono inciampata, letteralmente:

“Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”.

E’ una lastra di marmo che si trova a Malpensa. Ho poi scoperto che si tratta di un’opera di Alberto Garutti e che si trova in diversi luoghi, come appunto l’aeroporto, luogo di costante approdo per chi lascia o rientra a casa. Io l’ho vista prima di un momento particolare che difficilmente dimenticherò, eppure mi è servito anche quello per crescere ed imparare ad andare avanti con le mie sole forze.

Ho iniziato l’anno con una febbre da cavallo. Proprio io. Che in una stanza circondata da agenti virali ne esco completamente immune. Avrei dovuto capire tutto. Che quella tosse non mi faceva dormire la notte. Avrei dovuto capirlo dal 1 gennaio 2019, quando non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal divano. Avrei dovuto capire tutto. Ma poi è passato tutto. Ci ho messo un po’. Ma poi è andato tutto via. Il medico mi ha prescritto la cura, non è passato tutto in fretta, ma ad un certo punto il virus è andato via.

Quelle due frasi mi hanno permesso di capire, poi, fin dove sono stata in grado di spingermi. Perché tutti quei passi registrati sul cellulare sono quelli che mi hanno portato ad essere quella che sono oggi. E nonostante sia sempre severa con me stessa, devo dire che non mi dispiaccio affatto adesso, proprio ora. Sono in grado di vedere l’alba che mi aveva promesso il mio papà.

Per il 2020 non mi aspetto nulla e non mi sento di imputare colpe all’anno appena passato. So solo che la voglia di camminare difficilmente placherà la mia sete di scoprire il mondo, e perché no, anche me stessa.

Jessica

PS: se dovessi decidere con quale canzone introdurmi al nuovo decennio, sarebbe ‘Freedom ‘90’ di George Michael per il buonumore del ritmo e perché… ‘sometimes the clothes do not make the man’!

Pubblicato in: èsololavita

Chi sente ancora la campanella…

Siamo nel pieno dei giorni di auguri ‘a te e famiglia‘, in cui auguriamo a tutti di trascorrere un lieto Natale in compagnia delle persone che più amiamo, della nostra famiglia in particolare.

Eppure, in questi giorni ho avuto modo di osservare le persone, di guardami intorno per notare diversi atteggiamenti, il loro modo di comportarsi, ma soprattutto l’affanno. Il costante affanno per il motivo più disparato, e disperato. La ricerca del regalo perfetto, del budget da rispettare, della costrizione di fare il regalo a qualcuno solo perché abbiamo ricevuto una scatola di cioccolatini. Insomma, più diventiamo adulti e più ci imbruttiamo. Si tratta di una bruttezza che non ha niente a che vedere con il taglio di capelli che non ci piace, quanto piuttosto a quella faccia corrucciata che assumiamo tutte le volte che camminiamo per strada, anche da soli, e non ce ne accorgiamo, perché diventa tutto una rottura di scatole.

Non posso nascondere che in questi giorni abbia dovuto respirare a fondo per un sacco di fastidi e rotture di scatole, dall’apparente semplicità di tornare a casa dopo lavoro e trovare puntualmente la circolazione dei tram interrotta per svariati motivi, al continuo essere spintonati dalle persone perché devono correre.

Quando ero piccola il Natale aveva un altro sapore, il sapore dell’attesa, dell’emozione e della famiglia riunita a tavola. Aveva il sapore dei baci dei parenti e della poesia detta ad alta voce nonostante la timidezza. Era la tombola, erano i giochi con le carte, era tutto quello che oggi si fa fatica a condividere perché il tempo deve essere trascorso a vedere le storie degli altri, o a controllare il numero di visualizzazioni della nostra. La storia dovrebbe essere una soltanto: trascorrere del tempo con le persone che si trovano sedute a tavola con noi, collezionare ricordi, e non stories. Perché sono quelli che porteremo sempre con noi, ad ogni Natale che passa.

Ogni Natale ci catapulta in un periodo in cui tutto viene amplificato, in cui tutte le emozioni inevitabilmente rimbombano nella nostra testa, che siano sensazioni positive o negative. Sono i ricordi a farla da padrone. Allora io mi chiedo che cosa ricorderanno le persone di queste ultime festività, dato che, piuttosto che creare nuovi ricordi, preferiscono vivere quelli degli altri. Badate bene, non mi stancherò mai di dirlo: quasi tutto ciò che vediamo, tutto ciò che viene condiviso, non rispecchia necessariamente la realtà. Ecco, così come vengono applicati i filtri alle foto, dovrebbe essere filtrata anche quella realtà, perché non riesco a capire dove possa portare il consenso altrui.

Vorrei chiudere il post con questa riflessione, ma vorrei anche tornare al titolo dell’articolo: chi sente ancora la campanella…

Per me Natale significa anche guardare, da tradizione, una serie di film che mi piacciono tanto, tra cui Polar Express. Mi rendo conto che i cartoni animati recenti vengono sempre più adattati agli adulti piuttosto che ai bambini. Il ragazzino protagonista, nonostante all’inizio scettico, conclude il film dicendo che anche da adulto riesce a sentire la campanella di Babbo Natale, cosa che invece non sono più in grado di fare tutti quei bambini del film che credevano ciecamente nell’omone vestito di rosso.

Io credo che un po’ di magia ci servirebbe sempre, e non si tratta di qualcosa di tangibile, ma di quel bagliore che continua a risplendere negli occhi nonostante la vita… e non credo di dover aggiungere altro.

Mi piace pensare di sentire ancora la campanella della slitta, che il 24 notte ci sia davvero un po’ di magia nell’aria e che siamo noi a crearla, gli eterni illusi, gli eterni pensanti che sperano ancora in qualcosa, e che, nonostante tutto, non smetteranno mai di farlo.

Buon Natale da una Pupetta nostalgica e illusa, che sente ancora la campanella…