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Disillusioni

Ultimamente mi è capitato di parlare molto con le mie amiche che, con tanta pazienza, mi ascoltano sempre. Diciamo che mi fanno risparmiare un sacco di soldi di terapia, perché le amiche sono anche questo. In alcune occasioni, ci siamo ritrovate a guardare con nostalgia gli anni dell’adolescenza, dove tutto faceva parte del nostro mondo di sogni e possibilità infinite. E allora ho iniziato a pensare seriamente a quegli anni e a cosa abbia modellato il mio carattere e il mio modo di pensare, e sicuramente molta della mia formazione la devo agli ultimi anni trascorsi tra i banchi di scuola.

Al liceo avevo delle professoresse innamorate dell’amore e della loro professione. Ne ricordo due in particolare, quella di italiano e quella di inglese. Nonostante il loro velo di durezza e autorità che dovevano trasmettere alla classe, ogni volta che c’era di mezzo Dante, Shakespeare, Montale, Keats, si sedevano sulla cattedra durante le ore di letteratura, il libro aperto in mano, e iniziavano a leggere le poesie ad alta voce a tutta la classe. A volte non leggevano nemmeno, le recitavano a memoria, e devo dire che nonostante siano trascorsi moltissimi anni ormai, molti di quei versi li ricordo ancora.

Quando finivano la lettura, i loro occhi chiari erano sempre lucidi, come se quelle lettere d’amore fossero per loro o come se quel cuore spezzato coincidesse perfettamente con le crepe delle loro esperienze. Quelle letture non si sono mai fermate nel tempo in cui sono state scritte, poiché le prof. se ne sono sempre servite per collegarsi al nostro, di mondo. Ci hanno sempre insegnato a vivere, a vivere delle gioie e dei dolori che ne sarebbero poi derivati. Spesso interrompevano ore intere di lezioni solo per parlare con noi, per confrontarsi e per consentirci di sviluppare i nostri pensieri critici senza essere influenzati costantemente dal mondo esterno.

Ci dicevano che avremmo dovuto raggiungere gli obiettivi con tenacia perché la vita non regala nulla, al massimo è in debito con noi. Quella tenacia credo che non abbia mai abbandonato nessuna delle mie ex compagne – sì, eravamo tutte femmine – e credo che in qualche modo quegli insegnamenti ci abbiano segnate tutte. Ci siamo diplomate con il romanticismo negli occhi e la malinconia leopardiana.

Tutto quello che è venuto dopo è stato frutto di disillusioni continue, di musi duri e porte in faccia a cui non eravamo, o meglio, non ero preparata. Mi hanno sempre insegnato a vivere, ad amare. Ma qualcosa deve essere andato storto nel frattempo e tu non puoi far altro che chiederti cosa ci sia di sbagliato in te, quale sia il tuo problema. Perché ad un certo punto l’analisi introspettiva la facciamo tutti, e non piace a nessuno.

Al liceo ho appreso che avrei dovuto vivere, vivere sempre. Dopo, con il peso degli anni sulle spalle, ho iniziato a disilludermi sempre più, perché la vita è una questione di sopravvivenza piuttosto. Tu puoi avere tutti i sogni che vuoi, aprire il cassetto per far prendere loro aria, ma lei, la vita, ti rimette subito in riga.

Ti insegna che laurearti entro i tempi dettati, raggiungere il massimo dei voti e un po’ in più, nulla possono a confronto degli annunci di lavoro che ti ritrovi per le mani, dove uno stage che per definizione ti paga quattro soldi ti chiede almeno due anni di esperienza nel settore, un livello avanzato di determinate competenze che non si riassumono con aggiungere ‘problem solving‘ al curriculum. Anche se tu li conosci tutti, i problemi che hai risolto durante le esperienze lavorative e sei ben consapevole di essere altamente qualificato.

Siamo una generazione di disillusi, dovremmo essere la generazione che spacca i culi e questo dovrebbe essere il nostro momento per realizzarci. Abbiamo lasciato le nostre case, fatto sacrifici, abbiamo fatto di tutto per diventare indipendenti per poi ritrovarci in una realtà del genere. Siamo figli di una generazione incerta, perennemente insoddisfatti. Guardiamo sempre a chi sta messo meglio di noi, dimenticandoci alle spalle le migliaia e migliaia di persone che invece se la cavano peggio, e dovremmo invece ritenerci fortunati nel nostro piccolo. Dimenticandoci, inoltre, che chi ostenta il proprio benessere aggiunge mille filtri alla realtà, perché nessuno vuole vedere le proprie brutture specchiandosi.

Tutte queste considerazioni quanto più attuali hanno condotto me e le mie amiche a guardare con nostalgia gli anni di un’innocenza perduta, dove qualsiasi adulto sminuiva ogni nostro piccolo problema e, a ben guardare, oggi probabilmente lo farei pure io. Anche se non facciamo altro che guardarci indietro con perenne nostalgia, io non credo che in passato fossimo più felici: abbiamo fatto tesoro di tutti i fallimenti, di tutte le delusioni, ripromettendoci di non comportarci più in un determinato modo o di non permettere più a nessuno di farci così male. E questo è successo ogni volta che siamo andati avanti. Se abbiamo subìto lo stesso torto, ci è poi scivolato addosso. Il problema è che, una volta accantonati i primi ostacoli, ne arrivano sempre altri, diversi e difficili a cui solitamente non siamo preparati.

E’ per questo che pensiamo sempre di aver vissuto gli anni migliori durante l’adolescenza: eravamo ancora spugna, che di volta in volta ha iniziato ad assorbire delusioni, fallimenti, storie d’amore andate a male, quando tutto ci sembrava ancora possibile, quando il mondo era tutto possibilità da esplorare. E’ allora che abbiamo iniziato a perdere un po’, a disilluderci sempre più. E con l’avanzare dell’età avanza anche il peso delle esperienze in maniera esponenziale, è inevitabile.

Eppure le poesie che mi leggevano me le ricordo ancora. Ricordo anche quelle professoresse che ci hanno insegnato molto più di una semplice analisi grammaticale. Forse una parte di noi vuole sempre aggrapparsi ai sogni, alle speranze, non riesce a lasciar andare del tutto quella spensieratezza che ci contraddistingueva, perché in fondo, seppur a piccole dosi, ne abbiamo ancora bisogno. Abbiamo bisogno di ricordarci, di tanto in tanto, di staccare la spina, il cervello proprio, e vivere quella leggerezza che ricordiamo, anche se tanto leggera non lo è stata mai.

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Il non detto

Nei giorni di quarantena sono partite un sacco di maratone tv, per tenerci un po’ tutti in compagnia. L’unica che per me ha avuto ragion d’essere è stata quella di Harry Potter, anche se sono abbastanza stufa della pubblicità e dei film che ormai iniziano alle 22.00. Ultimamente preferisco di gran lunga i servizi streaming. Con l’intervento divino di una mia amica ho attivato il servizio di Disney+, grazie al quale ho potuto trascorrere le serate dettate dalla leggerezza che tutti abbiamo provato a ricercare in questo periodo. Oltre ai grandi classici, ne ho approfittato per dedicarmi alla maratona dei supereroi Marvel, dove, se tutto va bene, un film dura almeno due ore e mezza.

L’anno scorso sono andata al cinema con mio fratello per guardare Avengers Endgame, che mi è piaciuto un sacco, ma già allora ho constatato alcune lacune che avevo in merito a determinati personaggi.

E così, quando ho seguito il filo logico delle avventure dei supereroi, sono arrivata ai ‘Guardiani della Galassia vol.2‘, il secondo insomma, che ho trovato più appassionante del primo. Ma questa è solo la mia opinione. Come tutti i supereroi che si rispettino, il protagonista, Peter, ha una cotta per una ragazza, Gamora, che per la maggior parte del film non se lo fila nemmeno di striscio. Insomma, solite dinamiche. Nonostante questo, però, entrambi i film accompagnano lo spettatore all’inevitabile scena finale in cui i due non si dichiarano, né tantomeno si dimenano in discorsi dove si giurano amore eterno. Anzi, direi quasi il contrario. Peter e Gamora parlano di tutto il ‘non detto‘ che c’è tra loro, tutte quelle piccole attenzioni, quei piccoli gesti, che li portano ad avvicinarsi sempre più l’uno all’altra.

Questo è sicuramente un esempio positivo del non detto, del fatto che due persone, nonostante non abbiano mai espresso i loro sentimenti a voce, quanto piuttosto con piccolissimi gesti, perseguono il loro lieto fine. Ma la realtà è di gran lunga diversa dai film, e il non detto che resta tra noi comuni mortali subisce delle modifiche sostanziali. Mentre leggete questo brevissimo riassunto dove voglio condurvi alla mia considerazione, sono sicura che ognuno di voi stia pensando nel proprio piccolo a quella persona, anche incontrata di sfuggita per strada, che vi è rimasta in mente e che vi ha fatto pensare seppur per un solo istante, cosa sarebbe successo se…?

Proprio per questa domanda che vi è frullata almeno una volta nella testa, conservate un bel ricordo di quella persona, perché non avete avuto né modo né tempo di conoscerla, oppure di scoprirne le dinamiche in due, ma tutto si conserva nella vostra immaginazione, chiedendovi se quelle stesse emozioni siano state percepite anche dall’altra parte, se anche l’altra persona abbia pensato, per un solo istante, a voi.

Il non detto è un’arma a doppio taglio, può alimentare scenari presenti solo nel nostro cervello, e ci induce a crogiolarci in voli pindarici che appartengono solo alla nostra testa. Il non detto ti resta sullo stomaco. I tempi sono sbagliati, le parole vengono fraintese, le scelte di pancia vengono sostituite da mille ragionamenti che logorano il cervello, corrugano la fronte e rimpiccioliscono gli occhi, come a voler mettere a fuoco qualcosa che non si riesce a percepire sulla superficie. Il non detto si conserva in gesti piccoli, piccolissimi, che hanno tutti lo stesso significato: “questa cosa mi ha fatto pensare a te“, il che è già un risultato da non sottovalutare, considerato che non ci si aspetta niente, proprio perché niente è stato detto prima di allora.

Credo che in questi casi non ci sia una risposta univoca quando ci chiediamo se agire o meno, se fare un minimo passo in avanti oppure lasciare tutto così com’è, nella Svizzera del non detto, dove tutto è ciò che è, non è, e potrebbe essere. Forse dipende sempre dalla nostra predisposizione, dal nostro carattere, se le scelte dettate dall’istinto siano le prime che seguiamo oppure le lasciamo nel dimenticatoio e stiliamo invece lunghe liste di pro e contro.

Il vero problema è che, nel momento in cui noi ci perdiamo in questi pensieri, scopriamo che avremmo dovuto pensare un po’ meno, agire un po’ in più. E nel frattempo lo sconosciuto ha già attraversato la strada, è altrove. E tu rimani con tutto il non detto che avresti voluto raccontargli. E’ tardi.

Eppure, alla fine di Avengers Endgame, Peter e Gamora si incontrano di nuovo, sebbene in circostanze particolari (qui non si fanno spoiler!). Questo per dire che forse, ma solo forse, Baricco ha ragione quando dice che non si è mai lontani abbastanza per trovarsimai. Chi doveva essere solo di passaggio ha semplicemente transitato lungo il nostro cammino, alterandolo, arricchendolo, abbruttendolo. E poi ci sono i Peter e le Gamora, che si riconoscono in qualsiasi posto.

Jessica

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La mia persona

[…] Il ragazzo che aveva perso il rospo era tornato, ma questa volta con lui c’era una ragazzina che indossava la sua uniforme di Hogwarts nuova fiammante.

“Qualcuno ha visto un rospo? Neville ha perso il suo” disse. Aveva un tono autoritario, folti capelli bruni e i denti davanti piuttosto grandi. […]

Viene così introdotta Hermione Granger nel primissimo libro della saga di Harry Potter, il maghetto più famoso al mondo nonché collana di libri a me molto cara.

L’ingresso in scena di Hermione è brusco, interrompe una conversazione tra Ron ed Harry e incurante si intrufola nelle loro vite, sebbene gli esordi non facciano ben sperare in una solida storia di amicizia e amore.

L’incontro con la mia persona, la mia Hermione, è avvenuto quasi venti anni fa. Era il 14 o il 15 settembre 2001, vivevo per la prima volta sulla mia pelle una storia fatta di terrorismo che non si fermava solo sulle pagine che leggevo a scuola, ma facevano parte del quotidiano e avrebbero influenzato gli anni successivi e la storia moderna. In quel periodo io combattevo un’altra battaglia, che ancora oggi mi porta non pochi problemi: la mia timidezza. Mi apprestavo ad iniziare un nuovo ciclo scolastico, quello delle scuole medie, dove non avrei incontrato le mie amiche delle elementari e avrei dovuto incominciare tutto daccapo. E se non fossi piaciuta a nessuno? Se non avessi mai intrecciato nuovi rapporti di amicizia? Questi pensieri mi angosciavano non poco allora. Per fortuna ora riesco a gestirlo molto meglio, ma la sensazione di disagio che mi accompagna quando devo conoscere qualcuno non mi ha ancora abbandonata.

Tornando a noi e a quel primo giorno di scuola, ricordo che quella mattina ero salita sull’autobus che raccoglieva i bambini della zona per lasciarli davanti all’istituto. Si ferma, sale un’altra manciata di bimbi e vedo salire la mia Hermione: capelli castani e arruffati, zaino in spalla e sguardo curioso. Prende posto proprio dietro di me. Eppure quella bambina aveva un’aria familiare, ma non riuscivo proprio a ricordare dove l’avessi già vista. Ci pensa lei a rinfrescarmi la memoria. La sua testa tutta capelli fa capolino tra le spalliere dei sedili e mi saluta: “Per caso tu vieni in Corderia? Alla spiaggia?

Ecco dove l’avevo vista, tutte le estati al mare, al bar a prendere il gelato, nei balli di gruppo con gli animatori. Era proprio lei!

Annuisco e accenno un sorriso, cercando di controllare il rossore che sento salire su tutto il volto.

“Io sono Katia” mi dice. “Ciao, io mi chiamo Jessica.”

A ben pensarci, venti anni sono tanti, ne ho conosciute di persone, molte delle quali sono state solo di passaggio nella mia vita. Ma nessun incontro è ancora tanto vivido nella mia memoria quanto quello. Katia mi ha – letteralmente e non – accompagnata per mano per tutti questi anni, nonostante la vita si prenda gioco di noi in modi che mai avremmo potuto ritenere possibili. Capisco quando vuole cercare di distrarmi mandandomi messaggi decisamente demenziali o cerca di occupare il mio tempo con altri pensieri che non siano i miei autodistruttivi. La capisco e lascio fare, perché una delle poche certezze della mia vita è che so di aver sempre bisogno di lei in qualche modo. L’anno scorso, dopo che non ci siamo viste per un po’ di tempo, si è trovata materialmente nelle mie giornate e non avrei potuto chiedere di persona migliore che mi tendesse la mano e mi risollevasse.

Dopo tre anni di scuole medie e cinque di liceo dove ancora mi rinfaccia i lividi sul braccio sinistro perché era il mio modo per attirare la sua attenzione, l’università ci ha viste prendere strade diverse. E poi il lavoro, le trasferte, Milano, Roma, Castellammare. Noi ci siamo sempre state, per i primi amori, le prime delusioni, le prime sbronze, le discussioni in famiglia o con amici, i primi viaggi insieme, Parigi, Stresa, Valencia, i litigi tra noi che ci hanno portato periodi di stallo, per poi ritrovarci di nuovo e più unite di prima.

Per me è sempre stata la mia Grande Puffo, come spesso l’ho chiamata nel corso di questi anni, quando dispensava perle di saggezza decisamente troppo profonde per la sua età… e continua a farlo! Ci sono stata quando pensava di essere persa e non vedeva la luce in fondo al tunnel, ma sono sicura che alla fine sia sbocciata grazie al lavoro che ha compiuto su se stessa. Ora è una donna autonoma, indipendente e inalterata nella sua bellezza, anche quando ha scelto il compagno della sua vita, perché è stato un valore aggiunto, e non un elenco di privazioni. La guardo e so che ho ancora molto da imparare da lei.

Katia è il giallo, il suo colore preferito, il colore dei girasoli, il colore del sole, della vita. Questa piccola lettera d’amore è per lei, per augurarle un buon compleanno e per ringraziarla in qualche modo per tutto quello che mi dice, ma soprattutto per tutti i silenzi pregni di significato.

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Katia è la mia Hermione. E si sa, senza Hermione, Harry sarebbe morto nel primo libro.

Jessica

PS: in questi giorni ricorre anche il primo compleanno di questo blog. Grazie a tutti coloro che si fermano a leggere, a leggermi, siete preziosi per me.