Questa è la mia quarta settimana di quarantena in casa. La quarta settimana di smart working. La quarta settimana in cui vedo i miei genitori e mio fratello tramite telefono. La quarta settimana di call dove saluto i miei colleghi e ogni volta veniamo informati su quanto il lavoro si stia riducendo, di quanto le sedie tremano sotto il peso delle nostre responsabilità. La quarta settimana di paura. Ma non per me. La paura per i miei cari, la paura di ricevere quella data chiamata e sapere che qualcuno l’ha beccato per davvero, questo maledetto virus.
La quarta settimana in cui rivoluziono dispense dove ho trovato pasta scaduta nel 2017 (scusate), mobili da cui butto rossetti vecchi di almeno 5 anni. La quarta settimana in cui cerco di non avere una routine fissa, ma di appassionarmi ogni giorno a qualcosa, di interessarmi a qualche argomento, a qualche tutorial, a qualche nuova ricetta, mentre giro la clessidra che ho sulla tavola e aspetto. Ma non sono l’unica. Siamo tutti in attesa che passi. Stiamo aspettando tutti che i numeri dei contagi e dei decessi calino per avere uno spiraglio di speranza: la speranza di tornare quanto prima alla normalità. Di salire al mattino sulla metro gremita di persone che si accalcano per accaparrarsi un posto a sedere, con gli aliti pesanti di chi non ha ancora fatto colazione, o ha appena finito di fumare una sigaretta cinque secondi prima. Mi mancano anche tutti quelli che si attaccavano al telefono che proprio tu non capivi come facessero a parlare di primo mattino, a quei decibel soprattutto.
Mi manca la fermata che mi consentiva di arrivare al nuovo ufficio: ‘Gioia‘. Buffo, come un nome possa cambiare tutta la prospettiva di una giornata, eppure era così. Ora il palazzo della regione Lombardia lo guardo solo in tv, quando i giornalisti collegati da lì forniscono il bollettino di guerra. Io, invece, ci passavo tutte le mattine, con le cuffie nelle orecchie, mentre andavo a lavoro. Un lavoro che di volta in volta diventa sempre più incerto, più insicuro, che sicuramente avrà ripercussioni nel breve e lungo periodo. Ma non sono sola e non è mia intenzione lamentarmi: siamo tutti sulla stessa barca.
Inevitabilmente abbiamo dovuto ridimensionarci in questi ultimi giorni, abbiamo capito che le nostre manie da megalomani, da persone che vogliono sempre più, sono nulla in confronto ad un virus, ad una cosa microscopica ed invisibile che può farci traballare da un momento all’altro. Forse è giusto che sia così, che siano sempre le piccole cose a muoverci, a farci apprezzare ciò che già abbiamo e ciò che soprattutto ci sta aspettando. Che lo si voglia o no, una volta usciti da questo periodo non saremo più le stesse persone che hanno chiuso la porta a chiave l’ultima volta. E sapete perché? Abbiamo dovuto fare i conti con qualcuno da cui siamo sempre sfuggiti: noi stessi.
Il lavoro, la palestra, l’aperitivo, la cena, il cinema con gli amici, col fidanzato, con i genitori, insomma abbiamo sempre riempito la nostra vita pur di non fermarci un attimo per dare una sbirciatina nello specchio e vedere chi ci risponde dall’altra parte. Molte persone lo fanno di propria volontà nel momento in cui si sentono pronti. Ma ora, nessuno era preparato a questo, ed è sempre ciò che la vita ti vomita addosso il motivo per il quale dobbiamo imparare a reagire ad ogni avversità. La quarantena non è facile per nessuno, né per chi si vede costretto a dover gestire 24h i bambini, il marito, i compagni, i coinquilini, né per chi, come me, vive da solo, e tutta questa solitudine non l’aveva chiesta.
Siamo tutti sulla stessa barca perché ora come ora è difficile rispondere alla domanda ‘come stai?’, personalmente mi mette in difficoltà, perché dovrei scrivere un monologo al giorno per poter dar voce alla mia testa – voce relativamente rauca, dato lo scarso utilizzo – . Ma poi ci penso per un attimo, e rispondo che sono in salute, e che questo al momento è tutto ciò che conta, perché so che ci sono persone che perdono i cari senza poterli nemmeno salutare un’ultima volta data la quarantena e il rischio di contagio, che ci sono persone che non erano pronte ad affrontarsi e ora ne pagano le amare conseguenze, che ci sono persone che hanno perso il lavoro, che non si sentono tutelati dalle istituzioni a differenza di altri paesi. Sono in salute – ehi, tocco ferro! – e va bene così.
Forse è davvero da questo che bisognerebbe ripartire, dalle piccole cose, apprezzarle, volerle bene, anche se si tratta di una stupida routine che fino al mese scorso odiavamo, ma che ora invece ci manca, ci manca tanto. La mia piccola routine di questo periodo, se così si può chiamare, è Douglas, un ragazzo che alle 18 in punto, ogni giorno, ci fa ascoltare 3/4 canzoni, alcune anche su richiesta, per poi ringraziare tutti e concludere con ‘ci vediamo domani!‘. Tra tutto questo continuo clima ansiogeno, darsi appuntamento per il giorno successivo è una delle piccole gioie di queste giornate così assurde, aspettando di poter riabbracciare chi, in questo periodo, ci manca come l’aria.
Nel frattempo, restate a casa, davvero.
Jessica