“In media, quest’anno hai camminato di più rispetto all’anno scorso.”
Mi sono imbattuta in questa frase, buttata così, statisticamente corretta, del mio telefono. Un giorno smanettavo tra alcune app e mi sono ritrovata tra le mani quella relativa al numero di passi, ai tragitti percorsi. Insomma, bene o male tutti abbiamo un servizio del genere su questi mostri tecnologici: ci fanno sapere quanti chilometri percorriamo, se abbiamo raggiunto l’obiettivo giornaliero e chi più ne ha più ne metta.
Quello che il mio telefono non sa, è il motivo per il quale ho avuto così tanto bisogno di camminare quest’anno. Sono uscita a camminare per prendere aria in faccia più di quanto voglia ammettere a me stessa. Mi ricordo che a volte realizzavo di essere per strada a percorrere vie a me familiari quando ero già ben lontana da casa. Altre volte correvo al parco. Mi rendo conto di essere stata davvero poco ferma. Un po’ come un animale in gabbia, come qualcuno che non trova pace. Ecco, proprio come qualcuno incapace di trovarsi in pace con sé stessi. A volte dovevo scappare da quella che definivo casa, perché non la sentivo mia, e ogni angolo mi riportava alla memoria attimi condivisi con qualcuno che aveva deciso di non esserci più. Solo che io non ero d’accordo allora. E sentivo il bisogno di scappare. Quindi si, caro telefono, ho camminato tanto quest’anno; ho incominciato col bisogno impellente di fuggire da me stessa, fino ad arrivare alla gioia di battere nuove strade, scoprire nuovi luoghi e infine ritrovarsi, sempre camminando.
Altri passi infatti sono stati frutto di passeggiate in compagnia, di giri interminabili di lavoro dove i piedi chiedevano pietà a fine giornata, ma la soddisfazione era troppa per potersi soffermare a pensarci. I miei passi mi hanno fatto andare incontro ad amici e familiari ogni volta che ne avevo bisogno, e ogni volta che loro avevano bisogno di me.
I miei passi mi hanno permesso di vagabondare in città sconosciute, sia per lavoro che per piacere: ho mangiato la paella a Valencia, raccolto soddisfazioni a Monaco, bevuto una birra sulla riva della spiaggia di Capri, ho bevuto il caffè più buono a Napoli, ho percorso le strade ripide di Lisbona, ho bevuto uno spritz a Verona con vista Arena, ho guidato su per una montagna a Palma, ho avuto un picco di colesterolo con un tagliere di salumi e formaggi a Parma, sono andata al cinema da sola a Norimberga e mi sono persa nell’incanto del Natale di Colmar.
Per gran parte di quest’anno ho sperato intensamente che il 2019 sparisse alla velocità della luce, come un fulmine che non tutti riescono a vedere, ma il cui tuono vibra nei timpani più del necessario. Come quelle situazioni vissute nell’arco di un paio di secondi che lasciano un amaro in bocca più di quanto si possa mai immaginare. Il mio primo post di questo blog parlava proprio della voglia di scrollarsi di dosso questa nefasta annata, di voler passare direttamente al 1 gennaio 2020. Era giugno. Ora, a dicembre inoltrato, ho capito che non sarebbe servito a nulla catapultarsi nell’anno successivo senza aver vissuto tutte le esperienze che il 2019 mi ha lasciato. Soprattutto quelle più spiacevoli. Non è un numero a fare la differenza, ma la somma del vissuto che continuiamo ogni giorno a portarci dietro, e dentro. Oggi saluto il 2019 come una vecchia amica saggia a cui essere profondamente grata, e mi rendo conto di poter parlare in tutta serenità proprio grazie a tutto ciò che è stato: credo che una bella differenza l’abbiano fatta anche le persone di cui mi sono circondata, ma devo riconoscere che sono stata io stessa a richiedere per me degli atti di coraggio che mai avrei pensato di dover affrontare. La cosa più bella ancora è stata poi superarli.
Ho portato con me due pensieri in particolare, entrambi raccolti ad aprile. In un momento in cui proprio no, non capivo per nulla a cosa mi sarebbero mai potute servire delle parole buttate lì su sfondo bianco. La prima viene direttamente da un messaggio inviatomi da mio padre. Mi trovavo ad una cena di lavoro con i miei responsabili, dove non sentivo altro che un chiacchiericcio indistinto, mentre la mia mente era ferma a casa, terrorizzata da quello che avrei (o non avrei) trovato una volta rientrata a Milano. Il messaggio è il seguente:
“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.” Kahlil Gibran
Nel secondo pensiero invece ci sono inciampata, letteralmente:
“Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”.
E’ una lastra di marmo che si trova a Malpensa. Ho poi scoperto che si tratta di un’opera di Alberto Garutti e che si trova in diversi luoghi, come appunto l’aeroporto, luogo di costante approdo per chi lascia o rientra a casa. Io l’ho vista prima di un momento particolare che difficilmente dimenticherò, eppure mi è servito anche quello per crescere ed imparare ad andare avanti con le mie sole forze.
Ho iniziato l’anno con una febbre da cavallo. Proprio io. Che in una stanza circondata da agenti virali ne esco completamente immune. Avrei dovuto capire tutto. Che quella tosse non mi faceva dormire la notte. Avrei dovuto capirlo dal 1 gennaio 2019, quando non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal divano. Avrei dovuto capire tutto. Ma poi è passato tutto. Ci ho messo un po’. Ma poi è andato tutto via. Il medico mi ha prescritto la cura, non è passato tutto in fretta, ma ad un certo punto il virus è andato via.
Quelle due frasi mi hanno permesso di capire, poi, fin dove sono stata in grado di spingermi. Perché tutti quei passi registrati sul cellulare sono quelli che mi hanno portato ad essere quella che sono oggi. E nonostante sia sempre severa con me stessa, devo dire che non mi dispiaccio affatto adesso, proprio ora. Sono in grado di vedere l’alba che mi aveva promesso il mio papà.
Per il 2020 non mi aspetto nulla e non mi sento di imputare colpe all’anno appena passato. So solo che la voglia di camminare difficilmente placherà la mia sete di scoprire il mondo, e perché no, anche me stessa.
Jessica
PS: se dovessi decidere con quale canzone introdurmi al nuovo decennio, sarebbe ‘Freedom ‘90’ di George Michael per il buonumore del ritmo e perché… ‘sometimes the clothes do not make the man’!