Pubblicato in: èsololavita

Ciuffo

L’altro giorno guardavo il mio riflesso nel vetro della metro, cercando di sistemare alla meno peggio i miei capelli tormentati dall’umidità e dalla pioggia che attanaglia Milano nelle ultime settimane. Nello spostare i capelli da un lato all’altro, rivedo per un attimo la me di qualche mese fa, di quando portavo ancora il ciuffo laterale. Da quanto tempo portavo quel ciuffo, proprio non saprei dirlo. Da quando ho iniziato la scuola, da quando ho iniziato a fare foto con il rullino. Da troppo insomma. A volte ho alternato il ciuffo ad una frangia, ma la sostanza poco cambiava. Sebbene abbia modificato lunghezza dei capelli nel corso degli anni, il ciuffo era sempre la costante pronto ad incorniciare sempre il mio volto.

Poco prima dell’estate invece, sono andata da un parrucchiere mai sperimentato prima. Mi ha vista ex novo, una tabula rasa sulla quale lavorare, senza conoscere ‘i miei precedenti’. Per questo, mi ha asciugato i capelli davanti con due ciocche aperte sui lati. Da quel momento ho iniziato anche io ad asciugarli in quel modo. E non ho più smesso. Non sapevo di potermi vedere con un look diverso dal solito, non pensavo che con una piccola modifica potessi vedermi tanto diversa. Eppure non mi dispiace. Per la prima volta, dopo troppi anni, ho iniziato a cambiare, ad uscire dalla solita via maestra.

Chi lo ha detto che la comfort zone sia così comfort?

Da piccola ho imparato il detto ‘non cambiare mai la strada vecchia per la nuova…sai quello che lasci, ma non sai quello che trovi‘. Non è sempre sbagliato, anzi. Molto spesso mi sono ripetuta questo mantra da sola, proprio perché è così confortante battere un terreno familiare, praticabile anche ad occhi chiusi. Tuttavia, a volte anche ciò che ci risulta familiare può presentare tante insidie. Anzi, proprio poiché ritenuto familiare, fa ancora più male nel momento in cui ci viene posto un ostacolo oppure un imprevisto.

Ergo, se tanto mi da tanto, se nemmeno la strada imparata a memoria a menadito è così rassicurante, perché non cambiare? Quando ero una drogata della serie tv ‘Grey’s Anatomy’ ricordo una frase che diceva Meredith, la protagonista: a volte il cambiamento è tutto. Il cambiamento spaventa, ma quando poi si arriva dall’altra parte della sponda del fiume, ci guardiamo indietro e possiamo solo sorridere al solo pensiero di come abbiamo fatto ad affrontare tutto questo, ad essere arrivati dall’altra parte. Non è stato facile magari, ma è proprio questo il bello: non smettere mai di porsi nuove sfide, misurarsi con le novità e capire quanto siamo bravi nell’affrontarle, davvero bravi.

Mi guardo nella metro, e aggiusto di nuovo le ciocche come sono abituata oggi. Chissà, magari un giorno porterò ancora un ciuffo laterale, ma sarà sicuramente diverso, gestito diversamente. Questo discorso è tutta una grande metafora? Può darsi. Per il momento va bene così. Tutto per un ciuffo!

Jessica

Pubblicato in: Wanderlust

Benvenuti a bordo!

Stamattina ero in aeroporto, in partenza per un viaggio di lavoro, e come sempre, i miei piedi erano ben saldi a terra, la mano serrata sul manico del bagaglio a mano, ma la mentre era altrove. Mi sono ritrovata a viaggiare con la mente prima ancora che col corpo. Solo che, a discapito di quanto possa affermare la fisica, io viaggiavo nel passato. Ogni volta che mi sono ritrovata in aeroporto, ma anche in stazione, da sola pronta a partire, ho sempre una mistura di sentimenti che toccano tutta la scala cromatica, dalla malinconia alla paura all’eccitazione.

C’era un tempo, prima ancora della fobia degli attentati, prima ancora delle nevrosi ingiustificate per un bagaglio lasciato per mera distrazione, in cui chiunque, spassionatamente, poteva dire di andare a prendere un caffè in aeroporto. Il mio papà mi ci portava per davvero, e la sola idea di vedere quegli aeroplani abbandonare man mano il suolo mi faceva viaggiare con la fantasia, sebbene fossi troppo piccola e già troppo vecchia per poter sviluppare pensieri simili. Oggi, ogni volta che mi reco all’aeroporto, penso sempre al mio papà. Forse è stato proprio lui, in quel modo, a instillarmi l’amore per i viaggi. Chissà. E questa è la malinconia che mi porto addosso prima di una partenza. Ma di quelle sensazioni piacevoli, di cui si è grati per averle vissute e troppo consapevoli da capire che proprio quei piccoli momenti erano e restano tutt’ora impagabili e inestimabili.

Mentre formulo questi pensieri, mi ritrovo già davanti ai soliti imbruttiti in fila almeno un’ora prima che apra il gate, giusto per assicurare il posto alle proprie valigie esattamente sopra le loro teste, così da poter schizzare fuori non appena si arriva a destinazione. Purtroppo vengo travolta anche io da questa smania, ma giusto per evitare di guardare male chi si appropria indebitamente del mio minuscolo spazio vitale. In un attimo salgo sul transfer, poi le scale, saluto lo steward e mi ritrovo seduta al posto assegnatomi. In quel preciso istante inizio a rendermi conto di quanto sia piccola quella scatoletta di tonno, ma cerco di non pensarci, anzi faccio affidamento al mio solito kit da viaggio: libri e settimana enigmistica. Poco riescono a distrarmi quando le hostess iniziano ad indicare le uscite di sicurezza, oppure quando è proprio il capitano a prendere parola e si sforza tantissimo per non farsi capire. Ma io devo sapere se balliamo, anche se non è il mio unico disagio in volo.

Il punto è che, nonostante questo slancio incontrollato ad esplorare tutte le città non ancora visitate e spuntare man mano le caselle dal mio infinito elenco, con l’avanzare dell’età sviluppo sempre più un’intolleranza ad imbarcarmi e a tremare ad ogni minima turbolenza, sebbene tutti i miei vicini di posto sembrino totalmente a loro agio.

Credo che gli atterraggi aerei debbano essere inseriti negli elenchi di esperienza pre-morte. Anzi, rilancio. Visto che il merchandising religioso sembra non essere mai abbastanza, aggiungerei un’esperienza di volo e annesso atterraggio con alcune compagnie low cost, perché se non si vedono la Madonna, gli angeli e i cherubini in quegli istanti non so davvero come siano messi nell’alto dei cieli. Noi, quaggiù, li imploriamo sempre quando ci accingiamo a toccare di nuovo il suolo. E quando ciò accade, ogni volta mi sento come il Papa che bacia la terra. È solo per una questione di dignità mista a schizofrenia che non lo faccio. Ma credo che quasi tutti temano quei secondi che precedono la frenata. Chi non lo ammette, mente. Il resto che afferma ‘ma tanto manca poco a toccare terra, cosa potrebbe mai succedere?’ lo ammazzerei. Tutti. Inutile che fate i finti razionali. Le paure non si spiegano, chiunque può usare la logica, quindi lasciatemi vivere questo momento di irrazionalità incontrollata!

E poi arriva l’eccitazione, il fare propria, seppur per pochissimo tempo, una città sconosciuta, familiarizzare con una lingua diversa, col cibo (beh, sopravvivere in alcuni casi). Che si tratti di un viaggio di piacere o di lavoro, non potrei mai smettere di spostarmi: innanzitutto perché potrei anche ritrovarmi senza un lavoro. Ma poi, volete mettere la sensazione di ritrovarvi dall’altra parte, di perdervi nelle stradine ed osservare il flusso ininterrotto di gente distratta, che viene e che va, come cantava Pino Daniele?!? Ogni volta che si visita una città, che sia una settimana o solo per un weekend, sembra sempre di aver vissuto una realtà parallela, si perde la cognizione del tempo, sembra che tutto sia cambiato, ma in realtà siamo noi ad essere leggermente diversi: ci siamo arricchiti di nuovo gli occhi, abbiamo scoperto bellezze diverse da quelle a cui siamo solitamente abituati, abbiamo affinato il nostro spirito di avventura. Ci siamo adattati, ancora una volta.

In ultimo – last but not least – c’è una sensazione che amo più di tutte, che segue il momento in cui la valigia trasuda di cimeli pronti a cercare posto su mensole, in cornici, sulla porta del frigo: aprire la porta e tornare a casa mia.

Jessica